Tuesday, July 25, 2006

E se musulmano fosse ‘colui che è alla ricerca del padre’?

Ringrazio Gianni De Martino per aver stimolato quel che segue come commento ad un suo post.

Tentando una spiegazione dell’antisemitismo, Iakov Levi si rifà alle teorie freudiane. Lo psicostorico - la definizione è dello stesso Levi - arriva a sostenere che è antisemita colui che è in conflitto con la figura paterna. Infatti, poiché l’ebraismo è la religione del ‘padre’ (laddove il cristianesimo è la religione del ‘figlio’) e poiché, secondo Freud, un bambino è ossessionato dalle dimensioni del pene paterno, è antisemita colui che odia l’ebreo in quanto dotato di un pene di grandi proporzioni, come quello, appunto, del padre. C’è altro da dire e da precisare su ciò che sostiene Levi, ma mi fermo alla sostanza.
Dico subito che l’opinione di Levi non mi sembra convincente, come non lo è Freud quando vede la psiche e quindi l’agire umano influenzati fondamentalmente (e ossessivamente) dalla sessualità.
Interessante mi pare invece la premessa di partenza di Levi, quella secondo cui, da un punto di vista archetipico, l’ebraismo è la religione del ‘padre’, mentre quella cristiana è la religione del ‘figlio’.
Se è così, e sono fermamente convinto che sia così, che cosa rappresenta invece la religione musulmana? Una risposta potrebbe essere: la religione di ‘colui che è alla ricerca del padre’. Gli arabi infatti discendono da Ismaele, il figlio illegittimo che Abramo scacciò da sé. Questa lontananza dal padre, incarnata collettivamente, si è poi forse trasfusa nella rivelazione di Maometto sulla natura di Allah. A differenza di Jahvé, che consente alla creatura umana di guardarlo negli occhi chiamandolo ‘paparino’ (l’Abbà di Gesù), Allah è lontano dall’uomo, non si pone al suo stesso livello, al punto che è irraggiungibile. Il devoto musulmano, mi pare di capire, tende verso Allah nella veste di figlio sottomesso, il quale cerca di accontentare un Padre severo per essere finalmente accettato e ammesso a godere dei suoi premi. Continuando su questa strada, ci si potrebbe domandare: è questo bisogno inconscio di ‘tornare al padre’ a spingere alcuni occidentali a convertirsi alla religione musulmana?

Monday, July 24, 2006

Vittorio Messori: sarà l’arma atomica a fermare la guerra arabo-israeliana

Segnalo l’intervista concessa a Libero da Vittorio Messori e pubblicata venerdì 21 luglio. Ritenendola particolarmente interessante, ne propongo di seguito una sintesi. La versione integrale può essere letta qui e qui.

Messori sostiene che ciò che accade in Medio Oriente non va valutato secondo le categorie della politica e dell’economia (e, aggiungerei, secondo la mentalità di un occidentale intriso di ‘illuminismo’). Gli approcci di moltissimi analisti e osservatori sono fuorvianti proprio per questi vizi di origine.
Nella questione arabo-israeliana è presente invece un fattore - una forza profonda, per dirla alla Renouvin - che ha la preminenza su qualunque altro. Si tratta della religione.
Per gli israeliani, ‘terra e sangue’ sono un tutt’uno. In nessun altro luogo al mondo, se non nella Terra promessa, gli ebrei avrebbero potuto edificare un loro Stato. Questo spiega il motivo per cui i padri del sionismo respinsero le offerte avanzate dai negoziatori internazionali di far nascere il nuovo Stato in territori quali l’Uganda, l’Australia o altri ancora, ben più ricchi di materie prime della Palestina. Gli ebrei volevano tornare e vogliono rimanere solo nella Terra di Abramo, la terra dei padri. Mai gli ebrei avrebbero accettato qualcosa di diverso e mai rinunceranno ad abbandonarla.
Da parte loro, gli arabi concepiscono i territori entrati a far parte dell’Islam come acquisiti definitivamente e da recuperare qualora perduti. La maggioranza degli abitanti della Palestina divenne musulmana nel 750 d.C. Bene, quella terra non può che ritornare ad essere musulmana. Non ci sono alternative, e a rendere ancor più irrinunciabile il recupero della Palestina si aggiunge il fatto che Gerusalemme è una delle città sante dell’Islam.
La guerra arabo-israeliana si sostanzia quindi in un conflitto all’ultimo sangue tra due ‘fondamentalismi’ religiosi, secondo cui, rispettivamente, o lo Stato di Israele rimane nelle terre dove è ora, checché ne pensino i musulmani, oppure tutta la Palestina deve tornare ai musulmani e lo Stato di Israele si estingue per come lo conosciamo. Se si tiene conto della religione si può comprendere come le posizioni degli ebrei israeliani e degli arabi musulmani siano assolutamente inconciliabili e come le categorie interpretative dei conflitti che si basano sull’economia (secondo gli schemi marxisti) siano in questo caso inadeguati. In particolare, Messori afferma che nel caso arabo-israeliano si è di fronte ad un fenomeno che non è storico, ma ‘metastorico’.
Partendo da queste premesse, lo scrittore cattolico arriva alla conclusione che sarà la demografia a cambiare il corso del conflitto (e dell’umanità). Fra qualche decennio, Israele, popolato da 5 milioni di ebrei, sarà circondato da 5 miliardi di musulmani ostili. La pressione contro il piccolo Stato diverrà allora insostenibile e per sopravvivere, Israele non avrà altra scelta che utilizzare l’arma atomica contro i suoi nemici.

Friday, July 21, 2006

Suvvia, scopriamo le carte e l'acqua calda sul Medio oriente!

Ciò che sta accadendo in Medio oriente, a mio avviso, si può spiegare in questi termini. Se il Libano voleva risparmiarsi la reazione "sproporzionata" di Israele, il governo di Beirut avrebbe dovuto provvedere autonomamente a neutralizzare gli Hezbollah. Non è un problema di Israele il fatto che quello libanese sia un governo fantoccio nelle mani della Siria. Il Libano rimane sempre e comunque uno stato sovrano.
Per reagire in modo proporzionato, come avrebbero voluto le anime belle della sinistra nostrana, che cosa doveva fare Israele? Sarebbe stato efficace il sequestro di qualche terrorista del ‘Partito di Dio’ (sic!) e il lancio di razzi contro le postazioni Hezbollah? Un paese la cui esistenza è continuamente messa in discussione è abituato a scegliere tra opzioni serie, e qui erano due: o lasciare che intervenisse il governo di Beirut per far cessare gli attacchi terroristici, oppure risolvere il problema alla radice, recidendola. E le vittime civili, i profughi libanesi non contano nulla? Ancora una volta, si trattava di una responsabilità del governo libanese. Esso doveva garantire la sicurezza della sua comunità territoriale; doveva prevedere le conseguenze della sua inerzia (complicità) verso gli Hezbollah. E non poteva certo credere che gli Israeliani sarebbero rimasti indifferenti di fronte a ciò che si andava combinando. Forse che Beirut pensava di avere a che fare con i coraggiosi e determinati Europei?
L’augurio che Paolo Guzzanti lanciava in un editoriale di qualche giorno fa su Il Giornale era “Buona guerra, Israele”. E completa l’opera prima che arrivino gli Europei a salvare i terroristi, val la pena di aggiungere.

Dal particolare al generale, passando per la scoperta dell’acqua calda. È chiaro ormai a tutti che Israele è destinato a vivere in una condizione di guerra perpetua con i paesi arabi vicini; questi ultimi non hanno alcuna intenzione di fare concessioni e poi di rispettare gli accordi (dobbiamo proprio ricordare la storiella della rana e dello scorpione?). Soprattutto, è di una chiarezza cristallina il fatto che ai paesi arabi non importa un fico secco dei palestinesi. Usano la questione come pretesto per alimentare l’odio delle popolazioni arabe verso l’Occidente e gli ebrei, in tal modo distogliendo l’attenzione dai problemi interni. È assurdo che, dopo tanti anni di guerra, l’opinione pubblica in Medio Oriente non lo capisca, così come è assurdo che i palestinesi non capiscano di essere solo strumentalizzati. Come ha detto giustamente Davide Giacalone su Libero ieri, gli unici veri interlocutori dei palestinesi sono gli israeliani. La buona volontà di Tel Aviv è stata dimostrata con i fatti. ‘Territori in cambio di pace’ non era una promessa da marinaio, ma un impegno che Sharon ha messo in pratica con coraggio, sacrificio e realismo. E invece di approfittare della mano tesa, che fanno i palestinesi? Chiamamola pure la politica del “muoia Sansone con tutti … i palestinesi!”.

Il grande incubo: il nucleare islamico. Saddam Hussein venne fermato dall'aviazione israeliana nel 1986. Ora emerge che è l’Iran di Ahmadinejad ad avere quasi pronta la polpetta. L’ho già ricordato in un’altra occasione, ma mi sembra sempre utile ribadire ciò che rispose Montanelli a chi gli chiedeva perché gli USA si oppongono alla pretesa dei paesi islamici di possedere l’arma atomica: “Perché minaccerebbero di usarla!”. Quale uomo sano di mente dormirebbe sonni tranquilli sapendo che Teheran o Damasco dispongono di armi nucleari? La userebbero realmente contro Israele? La passerebbero ai terroristi di Al Qaeda perché questi la facciano esplodere in una capitale occidentale? Sarebbero così pazzi da rischiare la ritorsione di Israele e degli Stati Uniti? Meglio sarebbe fermarli prima di conoscere la risposta, anche se ciò comporta l’uso della forza. Una nuova Osiraq pare difficile. Ma la necessità aguzza l’ingegno degli americani e degli israeliani, gli unici che realmente sanno e possono. Certo, la spirale di odio verso l’Occidente si allargherebbe ma, al punto in cui siamo, di peggio c’è solo … la guerra atomica.

Thursday, July 20, 2006

Perché pacifisti e tiranni andrebbero a braccetto

L’alleanza fra pacifisti e tiranni, di Francesco Carella (pubblicato su Libero del 20 luglio 2006)

Tanto vale dirlo subito: i pacifisti amano le dittature e odiano le democrazie. Non si tratta di una provocazione, ma di una delle costanti meno nobili della storia del Novecento.
Quel che accade in queste ore, con i pacifisti che negano a Israele il diritto a difendersi dagli attacchi di Hezbollah, è solo l’ultimo episodio di una catena di errori lunga quasi un secolo. Infatti, che si tratti di Hitler o di Stalin, di Pol Pot o di Saddam Hussein, di Hamas o di Ahmadinejad, poco importa. La parte dell’aggressore e del guerrafondaio, per i “cultori della pace”, spetta d’ufficio alle democrazie.
Oggi, appunto, tocca a Israele, l’unica democrazia del Medio Oriente. Ma la lista degli errori – intenzionali o inconsapevoli – del movimento pacifista organizzato è davvero lunga. Sfogliamone qualche pagina, prima di cercare di mettere a fuoco le ragioni profonde che sottendono comportamenti tanto irresponsabili.
A tal proposito, nell’archivio della memoria c’è solo l’imbarazzo della scelta. Lo storico canadese Alvin Finkel, in un libro uscito pochi mesi fa (“Il Nemico Comune”, Fazi Editore, pagg. 257, euro 19,5) documenta, attraverso le minute delle riunioni di Gabinetto, il modo in cui il premier britannico Neville Chamberlain ha utilizzato, nel settembre 1938, gli umori della pubblica opinione pacifista per raggiungere, in chiave antisovietica, un accordo con Hitler sul destino della regione dei Sudati.
Del resto, è cosa nota che molte furono le manifestazioni di giubilo organizzate sia in Europa che negli Stati Uniti, dopo la firma del famigerato Patto di Monaco.
Come finì, sarebbe inutile ricordarlo, tanto le ferite del nazismo dolgono ancora oggi. Ma, purtroppo, non finisce qui.
Tutti ricordano i cortei imponenti per richiamare l’attenzione del mondo sulle vittime dei bombardamenti americani in Vietnam e in Cambogia, ma nessuno ricorda un solo corteo di solidarietà con i boat-people in fuga dal Vietnam comunista o una sola manifestazione contro il mattatoio cambogiano costruito con sapienza scientifica da Pol Pot. Questi, in soli tre anni e mezzo, sterminò un quarto della popolazione del suo Paese.
Al tempo della prima guerra del Golfo, decisa dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e legittimata da una risoluzione dell’Onu , assistemmo a manifestazioni oceaniche in nome della pace e contro Bush padre, ma un “silenzio assordante” è risuonato per le nostre strade una manciata di anni dopo, quando Slobodan Milosevic ordinò di stringere d’assedio Sarajevo. Silenzio, però subito tramutatosi in slogan anti-yankee quando iniziarono i raid aerei della Nato contro le forze serbe della Bosnia allo scopo di fermare quella mattanza. E siamo arrivati quasi ai giorni nostri.

Il pacifismo, la nuova «grande potenza mondiale» (la definizione è del New York Times) – portò nel 2003 milioni di persone lungo le strade delle capitali occidentali, per impedire che venisse deposto un dittatore sanguinario come Saddam Hussein. La stessa “potenza”, però, ha sempre taciuto sulla ferocia dei fondamentalisti islamici.
A questo punto la domanda è: qual è la vera anima dei pacifisti e perché, di fatto, difendono sempre le dittature?
Vladimir Bukovskij (dissidente sovietico e internato in un lager per molti anni) in “Gli Archivi segreti di Mosca” (Edizioni Spirali, pagg. 831, euro 30,5) si chiede: «Persino ora che mi trovo di fronte a centinaia di documenti sulla manipolazione sovietica dei movimenti pacifisti occidentali e che sembra esserci una risposta ad ogni domanda, a una di esse, quella che più mi tormenta, continuo a non poter rispondere: che cosa muoveva i pacifisti, la stupidità o la viltà?».
La risposta all’interrogativo posto da Bukovskij la troviamo nel pensiero di un grande filosofo e teologo protestante, Reinhold Niebuhr. Infatti, oltre sessant’anni, lo studioso americano scriveva: «Il vero nemico del pacifismo non è la guerra, ma la democrazia liberale… quel sistema imperfetto in cui i protagonisti politico-sociali prendono atto che i conflitti fra diversi interessi e diverse passioni non sono eliminabili e che con essi occorra fare i conti, faticosamente, tutti i giorni. La tirannia, viceversa, non ama i conflitti, perché non ammette le diversità d’interessi e di opinioni. Non li ama al punto che non consente loro di esprimersi sulla scena politica. Infatti, li elimina. La tirannia viene considerata dai pacifisti un ordine politico superiore alla democrazia liberale e, pertanto, viene vissuta come sinonimo di pace».

Una eco di questa mentalità è rintracciabile perfino nelle parole pronunciate martedì scorso in Parlamento da Massimo D’Alema. Secondo il nostro ministro degli Esteri, Saddam aveva il pregio di garantire la tranquillità della regione. L’attuale, traballante democrazia invece rinforza il terrorismo.
Insomma, il movimento pacifista si mobilita non perché abbia a cuore le sorti dell’umanità e voglia bandire dal mondo la guerra e la violenza, ma perché, continua Niebuhr, «odia l’Occidente liberale, democratico e, per sua natura, conflittuale». In primo luogo, gli Stati Uniti d’America. D’altro canto, come ricorda Bukovskij, «le colombe della pace fino alla caduta del Muro di Berlino non facevano altro che inneggiare all’Urss».

Wednesday, July 19, 2006

Se la legge olandese salva il partito dei pedofili, chi salverà i bambini olandesi?

I democratici, liberali e tolleranti olandesi sono intervenuti ancora una volta a ricordarci che al peggio non c’è mai limite.
Il 31 maggio scorso i mass media diffusero la notizia che nel paese dei tulipani era appena stato costituito il Partito dei Pedofili. Per ulteriori dettagli si veda l’articolo pubblicato da Repubblica online.
Oggi ho trovato per caso quest’aggiornamento:

17.07.2006 - 13:41
L'AJA - Un tribunale dell'Aja ha oggi dichiarato irricevibile un esposto presentato contro la costituzione del partito pedofilo.

Il procedimento era stato promosso dall'associazione Soelaas, che aveva lanciato una campagna per bandire il partito, e da rappresentanti di un gruppo di azione denominato Diritto fondamentale alla sicurezza nell'educazione.

L'esposto chiedeva il divieto di ogni attività da parte del Partito per l'amore fraterno, la libertà e la diversità (Pnvd) e l'annullamento di ogni atto relativo alla sua fondazione. Ma gli argomenti presentati non sono stati considerati dal giudice "sufficienti per bandire un partito".

A questa merda conduce il relativismo, l'imperante religione della civile Europa.

Wednesday, July 12, 2006

Pillole 10

Più sai ciò che vuoi e meno ti fai travolgere dagli eventi (Bill Murray in 'Lost in Translation')

Monday, July 10, 2006

Alé Azzurri! Meno male che ci siete voi

Non sono mai stato un grande tifoso del pallone, e in vita mia sono andato una sola volta allo stadio. Anche se così, il calcio mi appassiona quando gioca la nostra nazionale. Non so perché. Sarà forse per il fatto che il calcio è semplicemente bello e perché il tifo per la nazionale riesce a farci sentire uniti e Italiani, una volta tanto. Certo, è un peccato vedere in giro tante bandiere tricolore e sentir cantare il nostro inno nazionale solo in occasione di importanti eventi calcistici. Ma tant’è, cos’altro abbiamo da festeggiare con orgoglio a livello collettivo, cos’altro ci unisce più del calcio? Questo è un paese privo di un passato e di un presente nazionale di cui andare granché fieri. Occorre riconoscerlo: nel ‘fare’ gli Italiani il contributo dato dalla nazionale di calcio continua a prevalere su qualunque altra cosa. Basta così. Al diavolo la politica, la storia e le analisi sociologiche sul nostro meraviglioso e strano Paese! Oggi c'è solo da essere felici e orgogliosi che la nostra nazionale abbia vinto lealmente e con onore la sua quarta coppa del mondo.

Thursday, July 06, 2006

Voltaire, che mi dici di Adel Smith?

Uno dei principii fondamentali del pensiero liberale è stato espresso da Voltaire con la frase: “Non condivido quello che dici ma darei la mia vita perché tu possa dirlo”.

Adel Smith, il presidente dell’Unione Musulmani d’Italia che aveva pubblicamente definito il Crocifisso “un cadaverino in miniatura”, è stato assolto dal Tribunale di Roma dall’accusa di vilipendio alla religione cattolica in virtù del diritto alla libertà di opinione e manifestazione del pensiero.

Voltaire, mi sfugge qualcosa?