Thursday, November 30, 2006

Perché i cattolici credono in Dio?

Su Il Giornale di ieri, Giordano Bruno Guerri citava un’affermazione di Rita Levi Montalcini, secondo cui l’educazione laica ha «il grande merito di rendere gli individui responsabili dei propri comportamenti in forza di principi etici e non allo scopo di ottenere un compenso o sfuggire ad una punizione in una ipotetica vita ultraterrena». Giordano Bruno Guerri si mostra d’accordo con la scienziata nel “riconoscere una sorta di superiorità morale in chi opera il bene o evita il male senza speranza o timore di premi o punizioni eterni”.
Ammetto che, in genere, non do peso alle prese di posizione della signora Montalcini su temi di rilevanza etico e sociale (vedi il suo sostegno al Sì nel recente referendum sulla procreazione assistita), però in quest’occasione mi sembra che abbia fornito uno stimolo di riflessione per i cattolici. Lo stesso merito va riconosciuto, ovviamente, a Giordano Bruno Guerri.
La loro tesi è che la fede si nutre di un mero calcolo utilitaristico. Sarebbe interessante conoscere la risposta dei cattolici. Che cosa c’è alla base della fede in Dio? Perché un cattolico si sforza di comportarsi in modo conforme al dettato evangelico? Che rilevanza un cattolico attribuisce all’aspettativa, dopo la morte, di una ricompensa o di una punizione da parte di Dio? Infine, è proprio vero che i cattolici maturi orientano la loro fede in Dio soprattutto in base al criterio del do ut des, oppure sono mossi da qualcos’altro?

Friday, November 24, 2006

Facciamo un po’ di luce sulla strategia gay?

Verso la fine degli anni ’80 la rivoluzione omosessualista, che si ispirava alla lotta di classe di impronta marxista, conobbe un momento di crisi: gli atti omosessuali provocatori in luogo pubblico, la bizzarria dei travestimenti, il sadomasochismo esibiti in parate “dell’orgoglio gay” e la vicinanza con associazioni pedofile (NAMBLA), anziché migliorare l’accettazione sociale dell’omosessualità, avevano accresciuto nella società diffidenza e antipatia nei confronti dell’omosessualità e del movimento gay.
Nel 1989 due intellettuali gay, Marshall Kirk (ricercatore in neuropsichiatria) e Hunter Madsen (esperto di tattiche di persuasione pubblica e social marketing) furono incaricati di redigere un manifesto gay per gli anni ’90: il risultato è il libro After the ball. How America will conquer its fear & hatred of Gays in the 90’s, un vero e proprio “manuale” di strategia per combattere il “bigottismo antigay”.
Perché gli anni ’90 avrebbero potuto fornire l’occasione per cambiare le cose? Gli autori lo ammettono tanto candidamente quanto cinicamente: l’esplosione dell’AIDS dava ai gay la possibilità di affermarsi come una minoranza vittimizzata, meritevole di attenzione e protezione.
Gli autori propongono tre tattiche, che si possono riassumere in questo modo.
1. Come tutti i meccanismi di difesa psico-fisiologici, spiegano gli autori, anche il pregiudizio antigay può diminuire con l’esposizione prolungata all’oggetto percepito come minaccioso. Bisogna quindi “inondare” la società di messaggi omosessuali per “desensibilizzare” la società nei confronti della minaccia omosessuale.
2. È necessario presentare messaggi che creino una dissonanza interna dei “bigotti antigay”. Ad esempio, a soggetti che rifiutano l’omosessualità per motivi religiosi, occorre mostrare come l’odio e la discriminazione non siano “cristiani”. Allo stesso modo, vanno enfatizzate le terribili sofferenze provocate agli omosessuali dalla crudeltà omofobica.
3. L’obiettivo finale è quello di “convertire”, ossia suscitare sentimenti uguali e contrari rispetto a quelli del “bigottismo antigay”. Bisogna infondere nella popolazione dei sentimenti positivi nei confronti degli omosessuali e negativi nei confronti dei “bigotti antigay”, paragonandoli, ad esempio, ai nazisti, o instillando il dubbio che il loro atteggiamento sia la conseguenza di paure irrazionali e insane (la cosiddetta “omofobia”).
Kirk e Madsen declinano queste tre tattiche in una serie di strategie e principi pratici. Ad esempio, essi individuano tre gruppi di persone, distinti in base al loro atteggiamento nei confronti del movimento gay: “gli intransigenti”, stimati in circa il 30-35% della popolazione; “gli amici” (25-30%) e gli “scettici ambivalenti” (35-45%). Questi ultimi rappresentano il target designato: a loro bisogna dedicare gli sforzi applicando le tecniche di desensibilizzazione (con quelli meno favorevoli) e di dissonanza e conversione (con i più favorevoli). Le altre due categorie, gli intransigenti e gli amici, vanno rispettivamente “silenziati” e “mobilitati”, con ogni mezzo.
Un’altra indicazione che gli autori suggeriscono è quella di “intorbidare le acque della religione”, cioè dare spazio ai teologi del dissenso perché forniscano argomenti religiosi alla campagna contro il “bigottismo antigay”.
Sarà inoltre opportuno non chiedere appoggio «per l’omosessualità», ma «contro la discriminazione». Per stimolare la compassione, i gay devono essere presentati come vittime:
a) delle circostanze; per questo motivo, dicono gli autori, «sebbene l’orientamento sessuale sia il prodotto di complesse interazioni tra predisposizioni innate e fattori ambientali nel corso dell’infanzia e della prima adolescenza», l’omosessualità deve essere presentata come innata;
b) del pregiudizio, che deve essere presentato come la causa di ogni loro sofferenza.
I gay devono, inoltre, essere presentati come membri a tutti gli effetti della società, addirittura come “pilastri” della stessa. Basta individuare una serie di personaggi storici famosi, noti per il loro contributo all’umanità, come gay: chi mai potrebbe discriminare Leonardo da Vinci?
Gli autori diedero indicazioni precise anche alle associazioni omosessuali e lesbiche in conflitto tra loro: è bene che ci sia una sola associazione portavoce del mondo omosessuale, e che sia gay; ovviamente gli omosessuali-non-gay sono, in questo modo condannati all’invisibilità.
Un’altra strategia per rendere “normale” l’omosessualità agli occhi delle persone consiste nel richiedere unioni, matrimoni e adozioni gay; non tanto perché i gay non vedano l’ora di sposarsi e metter su famiglia, quanto piuttosto perché, agli occhi dell’opinione pubblica, se anche i gay desiderano formare una famiglia e avere dei bambini appaiono rassicuranti, tradizionali. Inoltre, chi potrebbe, in questo modo, accusare il movimento gay di voler sradicare l’istituto matrimoniale e familiare?
Il saggio di Kirk e Madsen si conclude con queste parole: «Come vedi, la baldoria è finita. Domani inizia la vera rivoluzione gay».

Tratto da Abc per capire l’omosessualità, San Paolo, 2005, pp. 39-40.

Alla redazione del libricino hanno collaborato: Chiara Atzori, Jennifer Basso Ricci, Medua Bodoni, Marco Invernizzi, Roberto Marchesini, Giacomo Perego, Giancarlo Ricci, Laura Solvetti, Guido Testa. Com'era prevedibile, le credenziali professionali di chi ha stilato le varie sezioni dell'opera sono state messe in dubbio dal movimento gay italiano. La strategia della delegittimazione nei confronti di chi non rimane nei ranghi è puntualmente arrivata, ancor più per il fatto che la proposta informativa è stata realizzata in ambito cattolico.
Per quanto mi riguarda, ho trovato in quest’Abc alcune informazioni interessanti - del tipo di quelle menzionate in questo post -, e, diffondendole, reputo di far cosa utile alla comprensione dell’imperante “bigottismo gay”.

Wednesday, November 22, 2006

Ma quei prof umiliati sono uomini o caporali?

In questi giorni si fa un gran parlare degli episodi di violenza nelle scuole da parte di adolescenti ai danni di coetanei. Lungi da me aggiungere ulteriori parole alle tanto sagge e meditate interpretazioni del fenomeno (crisi della famiglia, crisi della scuola, crisi della società, assenza di responsabilità individuale, buonismo imperante, il ’68, la foca monaca, il gelato Sammontana…). Qui vorrei solo citare un brano di un articolo comparso oggi su Il Giornale e fare delle osservazioni da bar.
Ne ‘I prof umiliati difendono i bulli e Fioroni se la prende coi reality’, Nino Materi cita alcuni esempi di prepotenze di studenti ai danni, questa volta, di insegnanti:
Prendete, ad esempio, il docente di Italiano dell'istituto agrario «Kennedy» di Monselice (Padova) al quale i suoi alunni sono arrivati addirittura a «impacchettare» la testa in un foglio di giornale: uno dei video della vergogna più cliccati sul web.
La scena choc si conclude con il professore che si limita a dire: «Allora, la smettete?».
Un atteggiamento incredibilmente soft che il docente veneto conferma anche ora che il «film» è diventato di dominio pubblico: «Si è trattato di uno scherzo di cui non avevo più memoria...». Dello stesso tenore le dichiarazioni del suo collega al quale uno studente ha quasi ribaltato addosso la cattedra; idem per il docente a cui un allievo punta una pistola (giocattolo, si spera) alla tempia e del professore di educazione fisica al quale un alunno abbassa il pantalone della tuta: scene impietosamente immortalate dai telefonini e da qui inserite in rete alla stregua di trofei scolastici. «Goliardia», eccola la parola giustificazionista più usata dai professori entrati nel mirino dei bulli, ai quali i docenti vessati non solo non rifilano due bei calci nel sedere (rischiando però così di passare dalla parte del torto e magari di venire linciati da genitori e mass media) ma nei cui confronti riservano parole fin troppo comprensive: «Si tratta di ragazzi vivaci che vanno recuperati...». Con qualche ceffone? Guai a usare le mani: queste possono alzarle solo gli studenti sui professori.

Domando: ma dov’è finito l'amor proprio, la dignità, l'orgoglio di questi insegnanti? Come può un uomo accettare di essere trattato nei modi sopra descritti da uno stronzetto di 16, 17 o 18 anni? E per quale motivo questi insegnanti non prendono a ceffoni e a calci in culo i suddetti stronzetti? Per non ‘venire linciati da genitori e mass media’!!!
Io non credo che un uomo possa rimanere indifferente in situazioni simili; non credo che si possa vivere in pace con se stessi lasciando correre tali episodi di prepotenza. Come possono degli uomini continuare a guardarsi nello specchio e a guardare negli occhi le proprie mogli, sapendo di non aver reagito? E con quale autorità morale possono insegnare ai propri figli? Sono questi gli educatori di sesso maschile che fanno scuola nelle nostre scuole? Non sono sicuro che si tratti di casi isolati. E non mi sembra inopportuno parafrasare Cesare Pavese: ciò che è toccato loro non è per caso che è toccato.

Tuesday, November 21, 2006

L’integralismo religioso secondo Maurizio Crozza




Che cos’è l’integralismo religioso? È una religione con tanta crusca. E infatti ti fa fare delle grandi cacate.

Friday, November 17, 2006

A Otto e mezzo, una chiacchierata con Giovanni Lindo Ferretti

Metto giù qualche riga su Giovanni Lindo Ferretti, ospite a Otto e mezzo qualche sera fa.
Ferretti, l’ex leader del complesso punk CCCP, marxista convinto per buona parte della sua vita, vive in un piccolo paese dell’Appennino emiliano. Paesaggi mozzafiato e quattro anime. Così come quattro sono i cavalli che il nostro alleva e a cui è affezionatissimo.
Ferretti ha viaggiato molto (Russia, Mongolia, Cina) e ha conosciuto il dolore fisico (sette interventi chirurgici e l’asportazione di un polmone). A proposito della sua storia personale, ha rivelato: Quando, l’ultima volta, sono uscito dall’ospedale, avrei voluto scrivere una lettera ai miei migliori amici. Volevo augurare loro una grande sofferenza, perché il dolore schiude una porta importante nella vita (cito a memoria).
Parlando delle sue origini, ha detto: Provengo da una famiglia legata alle radici, alle tradizioni e alla terra. A mia nonna, una donna dalla personalità forte, devo molto di quello che sono.
Ferretti si è convertito al cattolicesimo. Alle scorse elezioni politiche, ha votato per la Casa delle Libertà. Giuliano Ferrara gli ha chiesto perché. “È stato un ritorno a casa”.
Ferretti scrive articoli, alcuni comparsi su Il Foglio, e di recente ha pubblicato un libro, Reduce. Oggi ciò che è anormale è diventato normale, e una persona normale è vista con sospetto. E inevitabilmente finisce per rimanere sola.

Tuesday, November 14, 2006

Le parole che non si dicono

Perché per molti padri è così difficile dire: ‘Figlio mio, sono fiero di te’? E perché per molti figli è così difficile dire: ‘Papà, mamma, sei il miglior genitore che potessi avere’?

Thursday, November 09, 2006

Pillole 12

Il male si nasconde tra le pieghe del bene. Vivaddio, si verifica anche il contrario.

‘Quella strana alleanza contro Usa e Israele’

Su il Giornale di oggi, Paolo Granzotto risponde al seguente quesito di un lettore: Mio padre mi ha sottoposto un argomento di riflessione: perché gli estremisti di destra e di sinistra sono stati sempre attratti dai musulmani, ovviamente correlato da esempi storici da Napoleone in poi. Mi aiuta a svolgere il tema?
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A voler fare esempi storici di qualche rilevanza occorre spingersi un po' più indietro di Napoleone, gentile lettrice. E arrivare a Carlo IX di Francia, unico monarca cattolico a non aderire alla Lega Santa e quindi a non prender parte alla gloriosa battaglia di Lepanto. A spingerlo a quella scelta fu il desiderio di non guastare gli ottimi rapporti con la Sublime Porta (che mettevano al riparo la flotta mercantile francese da, diciamo così, brutti incontri in mare) e di impedire, rifiutando di darle manforte nella lotta contro i turchi, che la Spagna consolidasse il suo ruolo nel Mediterraneo.
In quanto a Napoleone, il suo filoislamismo traeva da un lato dalla riconoscenza nei confronti dell'Impero ottomano, la sola grande potenza a mantenere i rapporti con la Francia della Rivoluzione e del Terrore, dall'altro dalla lezione di Voltaire. Il quale, dopo aver trattato Mosé da stregone e Cristo da fanatico ebreo impostore, giudicò Maometto il campione della tolleranza e del buon senso e l'Islam l'unica religione che non fosse una «setta», ma un saggio, severo, casto e umano - proprio così, anche umano - insegnamento. La tentazione di illustrare meglio le fregole filoislamiche di Voltaire è forte, gentile lettrice. Ma andremmo fuori tema e non si fa. Sistemata la storia, passiamo alla cronaca. Credo che il suo babbo intendesse porre l'accento sul fatto che l'estrema destra e l'estrema sinistra - potremmo chiamarli, tanto per semplificare, comunisti e fascisti - si ritrovino concordi nel parteggiare per l'Islam, l'islamismo e gli islamisti e ciò pur militando in schieramenti ideologici opposti, se non antitetici. Come mai?
Il sottofondo di questa identità è di natura sentimentale. Per gli uni si tratta di nostalgia per le spade dell'Islam e di fedeltà al nazismo filoislamico. Non le starò certo a ricordare, gentile lettrice, la figura del Gran Muftì di Gerusalemme - il palestinese Amin al-Husseini - e i suoi strettissimi rapporti con Hitler.
Per l'altra parte, valgono invece le nostalgie di quando l'Unione Sovietica vegliava sul Medio Oriente (e il suo petrolio) allevando uno via l'altro i Nasser, i Mossadegh e i Khomeini, di quando faceva muro contro l'«imperialismo yankee» affollando la regione di «consiglieri», rifornendo di armi, aiuti economici, assistenza tecnica la Siria e l'Irak baathista, l'Egitto nasseriano ed ogni altra «democrazia popolare» che si facesse avanti. In entrambe si agita poi una percepibile componente antisemita - sentimento molto vivo non solo nella Germania nazista e nel fascismo della «Difesa della razza», ma anche, eccome, nell'Urss stalinista e poststalinista - e che, alla estrema destra, sconfina nel fondamentalismo religioso (gli ebrei deicidi). Ciò si traduce nell'antisionismo, con la conseguenza di schierarsi a favore di chi più brutalmente avversa Israele, l'Islam. A far da mastice a tutto ciò è il risentimento, che assume spesso se non sempre l'aspetto dell'odio, nei confronti degli Stati Uniti. Vista da destra l'America è la responsabile della disfatta dell'Asse perché senza il suo intervento in guerra, senza la colossale fornitura di armi, munizioni, carri armati, aerei, materie prime, dollari all'Unione Sovietica, Hitler e Mussolini sarebbero morti nei loro letti. Come Franco. Vista da sinistra l'America, il capitalismo, la democrazia, i valori occidentali sono colpevoli del crollo del comunismo, sepolto sotto le macerie del muro di Berlino. È dunque per spirito di revanche (uno spirito che ha sempre portato male, fra l'altro) che si verifica questo affratellamento nel sostegno senza se e senza ma all'Islam. Unica forza e unica ideologia nella quale riporre le speranze di regolare i conti con gli americani e, per far buon peso, anche con gli israeliani.

Wednesday, November 08, 2006

Differenza tra guerriglia e terrorismo? Risposta semplice e di buonsenso

Leggo su il Giornale di oggi un’intervista a Roberto Toscano, ambasciatore italiano in Iran, che ha scritto un libro dal titolo ‘La violenza, le regole’.
Riporto un brano dell’intervista in cui il diplomatico spiega la differenza tra guerriglia e terrorismo.
Il terrorismo si definisce per l’intenzione e per la natura del bersaglio: un bersaglio militarmente irrilevante ma che si vuol colpire per piegare la volontà dell’avversario. Di conseguenza, gli stessi soggetti che operano per la stessa causa possono essere terroristi o guerriglieri: un palestinese che attacca un carro armato israeliano è un guerrigliero, lo stesso soggetto che mette una bomba su un autobus, o si fa saltare in aria fra gli avventori di un caffè, è chiaramente un terrorista. Non vedo perché debba essere così difficile accettare questa distinzione. A meno, ovviamente, di voler dire che quando usano le armi i nostri non sono mai terroristi, e gli altri sempre. Nel mio libro cito un caso estremamente interessante. Quello di un giornalista olandese simpatizzante della causa palestinese che si reca nei Territori Occupati per scrivere, con comprensione e solidarietà, sugli attentatori suicidi e sulle loro famiglie, ma che a un certo punto viene colto da un pensiero che gli fa cambiare atteggiamento. Scrive: “Improvvisamente mi sono ricordato del fatto che mio padre era un combattente della Resistenza contro i nazisti. Lui non avrebbe mai messo una bomba su un autobus di civili tedeschi”.

Più chiaro di così! Ma si sa, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

Monday, November 06, 2006

Radicali Italiani e Riformatori liberali: per un cattolico, pari sono

Prendo spunto da un post di Stato Minimo per dire la mia sulle due anime del radicalismo italiano, di cui si parla tanto in questi giorni, vuoi per il teatrino messo in scena da Pannella-Bonino e Capezzone, vuoi per il manifesto dei Riformatori Liberali. Cosa ancor più importante, vorrei spendere qualche parola sulla questione cattolicesimo-liberalismo-radicalismo.
Detto in modo sbrigativo, Pannella, Capezzone, Bonino & C. mi sono sempre sembrati degli sbandati, dei senza regole, con tutto il loro professarsi liberali, liberisti e libertari. A mio parere, i leader radicali non sono molto diversi da quegli adolescenti a cui i genitori hanno sempre rifiutato qualche salutare scapaccione. Non mi piace il loro laicismo esasperato, senza limiti e intollerante, che confina poi con il relativismo. Non mi piace il fatto che, per loro, il liberalismo coincida con l’anticlericalismo, come dice anche Stato Minimo.
E i Riformatori Liberali? Da una lettura del loro manifesto, Diamo un’anima libertaria al centrodestra, mi sembrano emergere delle indicazioni rilevanti per un cattolico.
1. Politica interna. I Radicali di Pannella si sono alleati con il centrosinistra ritenendo che questo possa più facilmente attuare le loro istanze riformiste; i Radicali di Della Vedova si schierano invece col centrodestra, riconoscendo in quest’ultimo una volontà riformista più concreta e seria. Fin qui, nulla da segnalare. Si tratta di tatticismi frequenti in politica.
2. Scontro di civiltà. I Radicali di Pannella difendono l’Occidente in nome del liberalismo, ma non vogliono sentir parlare di origini cristiane della sua civiltà, perché hanno in odio la Chiesa cattolica e qualunque religione; i Riformatori Liberali accettano le radici cristiane dell’Occidente, dato che hanno tra le loro fila dei cattolici. Va bene che il mondo è bello perché è vario, ma, pensando proprio ai cattolici che si schierano con i riformatori di Della Vedova, conviene scavare un po’ più a fondo sulle differenze.
3. Temi sociali. Qui, secondo me, casca l’asino. Infatti, entrambi spingono, in nome della libertà e con sfumature più o meno accentuate, in favore della sperimentazione sulle cellule staminali, l’eutanasia, i PACS nonché i matrimoni e le adozioni gay.
A naso, mi sembra che qualcosa sfugga ad un cattolico che, tra visione liberale, liberista e libertaria, da una parte, e i propri riferimenti religiosi, dall’altra, non vede una contraddizione. È sufficiente dire, come fa qualche cattolico radicale, che il dilemma si risolve con il fatto che il credo religioso rimane nella sola sfera privata? Ma si può veramente condividere o lasciar passare in sede pubblica ciò che contrasta con le proprie convinzioni religiose? E tutto ciò in nome della libertà? Anche quando il sostegno a questa ‘libertà’ vuol dire contrastare l’idea cristiana di società libera? Delle due l’una, o non si è compreso molto del cattolicesimo, oppure non può un liberale, che sia anche cattolico, vedere nel radicalismo (Radicali Italiani o Riformatori Liberali) un punto di riferimento politico.


Si veda anche Capezzone il cialtrone.

Thursday, November 02, 2006

‘Le nuove suocere e il matrimonio’

Segnalo quest’articolo di Claudio Risé. L'immagine a corredo del testo, pescata in rete, è stata inserita dal sottoscritto.
Davvero le suocere sono fra le prime cause di fallimento matrimoniale? Questa tesi, illustrata da proverbi popolari in tutte le regioni italiane (e già questo significa qualcosa), viene ora riproposta dagli psicologi, che nei loro colloqui vedono comparire il fantasma di una suocera prepotente dietro a moltissimi matrimoni in crisi: uno su tre, a quanto pare. Non si tratta tanto del ritorno di un vecchio stereotipo, quanto del ripresentarsi, in un mondo trasformato, di una questione reale, apparentemente aggravatasi nel frattempo: la fatica dell’essere umano ad uscire dalla dipendenza dalla madre.
In fondo, sull’osservazione di questo fenomeno è nata la psicoanalisi, che continua ad essere la solida base di studio dei moti profondi dell’animo umano. L’affetto ed il bisogno dell’attenzione materna porta il figlio all’ostilità verso il padre, che della madre è il legittimo compagno, e soprattutto lo porterà poi a richiedere alla moglie le stesse attenzioni, le stesse gratificazioni, a suo tempo ricevute, o desiderate, dalla madre. Quando la moglie percepisce di essere vista come madre, e non come donna, amante, compagna, si disamora, ed il rapporto entra in crisi.
Il giovane maschio, però, non combina questo guaio, per solito, tutto da solo. La madre, che diventa suocera dopo il matrimonio, cerca in lui spesso, fin dall’infanzia, gratificazioni e conferme. Per non perderlo poi, mette di frequente in guardia il figlio nei confronti delle altre donne. La frase “nessuna ti amerà come me” riassume bene questo accaparramento materno, che è anche un allontanamento delle altre donne.
Dopo il matrimonio dei figli, queste madri tendono spesso a far gravitare sulla propria casa la giovane coppia, ed a mettere in rilievo le inadeguatezze della moglie. Il figlio di queste madri potenti, per costruire e difendere la relazione affettiva con la moglie, deve realizzare una dolorosa presa di distanza dalla madre, che spesso non accetta di “dividerlo” con un’altra.
Il problema della persistenza dell’immagine materna nel matrimonio, come contrapposta a quella del coniuge, non riguarda però solo i maschi. Lo stesso Freud, il fondatore della psicoanalisi, nei suoi lavori più tardi ammise di aver sbagliato a centrare tutto il suo edificio sul “complesso di Edipo”, che lega il figlio alla madre, senza vedere quanto anche la figlia rimanga legata, e addirittura identificata, con la figura materna.
Alla giovane donna la persistenza di un legame privilegiato con la madre, pone ancora un problema in più. Perché essendo la madre del suo stesso sesso, la forza del legame con lei rende alla donna più difficili tutti i rapporti con l’uomo, che rappresenta l’altro da sé, il diverso. Il rischio della simbiosi, della fusione, della non identificazione di sé come soggetto separato ed autonomo (che rappresenta l’aspetto più delicato del rapporto con la madre), è particolarmente forte nella donna. Che, quando scopre che il marito non rispecchia puntualmente i suoi gusti, i suoi bisogni, il suo stile di vita, non è insomma una mamma, oggi, sempre più spesso, lo lascia. E torna da mammà. Neppure lì, tuttavia, sta bene, perché ogni essere umano ha bisogno di vivere la propria vita in prima persona, non continuando a rispecchiarsi in chi lo mise al mondo, molti anni prima. Da qui molti malesseri caratteristici di una irrisolta relazione tra madre e figlia, a cominciare dai gravi disturbi alimentari dell’anoressia, o bulimia.
A minacciare il matrimonio non sono dunque tanto le suocere, quanto le madri che non accettano di emancipare i propri figli.

L’iniziazione

«È per la prima volta […] che i kybuchu [bambini tra i sette e gli otto anni e, più tardi, nell’età di essere riconosciuti come adolescenti] cantano, timidamente; la loro bocca, ancora inesperta, modula la prerä [canto riservato agli uomini] degli uomini. Laggiù in fondo i cacciatori rispondono con il loro canto, incoraggiando quello dei futuri beta pou [nuovo iniziato]. Le loro voci echeggiano a lungo; intorno, nella notte silenziosa, brillano i fuochi. D’improvviso, come una protesta, come un gemito di rimpianto e di dolore, si odono le voci delle donne: le madri dei giovani. Esse sanno che fra poco perderanno i loro ragazzi, che presto non saranno più i loro memby [bambino piccolo] ma uomini degni di rispetto. Il loro chenga ruvara [canto riservato alle donne] rappresenta l’ultimo sforzo per fermare il tempo, ma è anche il primo canto di separazione che celebra una rottura. Il rifiuto in forma di canto-lamento da parte delle donne di accettare l’inevitabile appare agli uomini come una sfida: la loro prerä si rafforza, diventa violenta, aggressiva e quasi sopraffa l’umile lamento delle madri che sentono i loro figli cantare alla maniera degli uomini. Essi sanno di rappresentare la posta della lotta ingaggiatasi tra gli uomini e le donne e ciò li incoraggia a sostenere vigorosamente il loro ruolo: questa sera, non fanno più parte del gruppo, non appartengono più al mondo delle donne, non sono più delle loro madri; ma, contemporaneamente, non sono ancora uomini, non sono in nessun luogo, e per questo occupano l’enda ayiä [capanna di iniziazione costruita dagli stessi giovani]: luogo diverso, spazio transitorio, limite sacro tra un prima e un dopo per coloro che presto moriranno per poi rinascere. I fuochi languono, le voci tacciono, tutti si addormentano.»

Tratto da P. Clastres, Cronaca di una tribù: il mondo degli indiani guayaki, cacciatori nomadi del Paraguay, Feltrinelli, Milano, 1980, pp. 115 e 117.