Friday, December 22, 2006

Buone Feste... nonostante il parere del generale

Questo blog sospende, per il momento, la sua attività. Faccio i miei auguri di buon Natale e di sereno 2007 a tutti coloro che, abitualmente o per caso, si affacciano da queste parti.

Concludo con un ricordo. Tempo fa, un generale mi disse che, a suo parere, l’augurio più opportuno per l’arrivo dell’anno nuovo avrebbe dovuto essere: “Avvenga tutto ciò che ci si merita!”. Pronunciate queste parole, il generale abbozzò uno strano sorriso.

Hoka Hey

Thursday, December 21, 2006

Benny Morris, il secondo Olocausto e l'inerzia di Israele

Me ne rendo conto, non è proprio nello spirito del Natale scrivere un post in cui si descrive e si commenta una visione apocalittica riguardante i nostri fratelli ebrei. Penso però che sia doveroso farlo, se ho capito qualcosa di Israele e del suo popolo.

Ieri, sulle pagine del Corriere della Sera, è comparso un lungo articolo a firma di Benny Morris, storico israeliano, intitolato “L’incubo del giorno del secondo Olocausto”. Morris tratteggia uno scenario che vede protagonisti il delirante estremismo religioso di Mahmoud Ahmadinejad e dei suoi accoliti, il debole governo di Israele, nonché la comunità internazionale, incapace di fermare la corsa nucleare iraniana.
Lo storico immagina che un giorno non troppo lontano, i leader di Teheran si riuniranno nella città sacra di Qom. Stabilito che l’eliminazione definitiva di Israele dalle carte geografiche preluda alla Seconda Venuta del dodicesimo profeta (il Mahdi, salvatore del mondo), Teheran decide l’attacco nucleare contro il ‘piccolo Satana’.
Allo scenario non manca nulla. Morris considera:
• i danni collaterali (i palestinesi, che Teheran vede con disprezzo, moriranno a milioni e costituiranno un tributo necessario alla causa contro il male sionista);
• i rischi per l’Iran (scetticismo nei confronti della volontà di reazione dell’Occidente, ma accettazione dell’eventuale annientamento della patria iraniana come martirio supremo per la vittoria finale dell’Islam nel mondo);
• le reazioni della comunità internazionale (fondamentalmente inesistenti, per timore delle devastanti conseguenze nei rapporti politico-economici con l’intero mondo islamico);
• le opzioni israeliane (1. impossibilità pratica di un attacco convenzionale preventivo che distrugga tutti gli impianti nucleari iraniani dislocati sottoterra; 2. improponibilità di un attacco nucleare preventivo, ché renderebbe Israele un paria della comunità internazionale; 3. inutilità di un contrattacco nucleare ad aggressione iraniana oramai avvenuta).
In definitiva, la catastrofe degli ebrei immaginata da Morris è ineluttabile. Soprattutto, egli tiene a sottolineare che questo secondo Olocausto sarà diverso rispetto a quello nazista, perché privo di qualsiasi contatto diretto tra carnefice e vittima. Infatti, «non vi saranno scene come quella che sto per raccontarvi, riportata da Daniel Mendelsohn nel suo recente libro The Lost, A Secret for Six of Six Million, in cui viene descritta la seconda Aktion dei nazisti a Bolechow, piccolo paesino della Polonia, nel settembre 1942.»
Ecco di che si tratta:
La signora Grynberg fu vittima di un episodio terribile. Gli ucraini e i tedeschi, facendo irruzione nella sua casa, la trovarono che stava partorendo. A nulla valsero le lacrime e le suppliche degli astanti: la portarono via, ancora in vestaglia dalla sua casa, e la trascinarono fino alla piazza davanti al municipio. E lì… fu spinta a forza sopra un cassonetto per l’immondizia nel cortile del municipio, e tra gli scherni e i dileggi della folla di ucraini presenti, insensibili al suo dolore, partorì. Il bambino le fu immediatamente strappato dalle braccia con tutto il cordone ombelicale. Fu scaraventato verso la folla, che prese a schiacciarlo coi piedi. Lei fu lasciata sola, con le ferite e i brandelli di carne sanguinanti, e così rimase per qualche ora, appoggiata a un muro, fino a che non fu portata alla stazione ferroviaria e, assieme agli altri, fatta salire su un vagone verso il campo di sterminio di Belzec.

Con questo brano si conclude l'articolo di Morris, ed è proprio da qui che vorrei fare una breve, forse superflua, osservazione.
Se lo storico israeliano avesse delineato il suo scenario a partire dalla vicenda della signora Grynberg, molto probabilmente non avrebbe ipotizzato l’inerzia suicida di Israele e degli ebrei americani di fronte al pericolo di un attacco nucleare dell’Iran. Ne sono convinto perché la ragione storica, l’essenza di Israele si fonda sulla memoria. Il ritorno in Palestina e l’edificazione del nuovo Stato furono motivati dal ferreo proposito secondo cui la tragedia delle tante signore Grynberg non avrebbe mai più dovuto verificarsi. Sin dalla sua nascita, Israele combatte per veder riconosciuto il diritto degli ebrei di vivere al riparo da ogni persecuzione. A fronte di qualsivoglia minaccia, rimane estraneo al vissuto e alla concezione religiosa degli ebrei l'idea di abbandonare quella lingua di terra, la terra dei padri. Non so quanti di coloro che sono scampati all’Olocausto nazista siano ancora viventi. Sono però convinto che, in un modo o nell’altro, essi abbiano tenuto vivo, nelle menti delle nuove generazioni, il ricordo dei propri cari e dei milioni di correligionari uccisi dalla follia hitleriana.
Qualora un attacco nucleare iraniano fosse alle viste, non credo che Israele rimarrebbe con le mani in mano “sperando che, in qualche modo, le cose si aggiustino da sé”; non credo che Israele si tormenterebbe nel dubbio di utilizzare, in via preventiva, il proprio arsenale nucleare contro l’Iran. Cosa importa l’estromissione dal consesso internazionale quando l’alternativa è l’annientamento definitivo? A che sarebbero valsi i tanti morti patiti in oltre cinquant’anni di vita dello Stato di Israele se poi, di fronte alla minaccia più temuta, ci si abbandona all’inerzia e alla disfatta morale?

Dio voglia che tanto Morris che il sottoscritto abbiano perso solo tempo e fantasia!

Si veda anche Vittorio Messori: sarà l’arma atomica a fermare la guerra arabo-israeliana.

Wednesday, December 20, 2006

Minori e adozioni: pur con le tante Marini, non tutto è perduto

Non scrivo assolutamente niente di nuovo, sono cose già dette e che cominciano a divenirmi pure noiose; ma su certe questioni, … repetita iuvant.
Libero oggi in edicola pubblica questo trafiletto:

«Voglio adottare un bambino, è assurdo che la legge italiana me lo vieti solo perché sono single». La frase è di Valeria Marini (…): «Lancio un appello a chi di dovere: cerchiamo di avere in fretta una legge giusta». Inoltre la showgirl si dichiara favorevole ai Pacs.

Cara Marini, ma sul serio pensa che la legge italiana sia così assurda? Secondo lei, alla crescita psicologica di un bambino non serve un padre e tutto ciò che lui rappresenta? Chi è per lei un padre? Ma che famiglie di origine, che esempi hanno avuto le Marini in circolazione per arrivare a questa esclusione di ruoli genitoriali? La politica, quella seria, non può permettersi di assecondare delle pretese che si mostrano del tutto incuranti delle esigenze dei minori e, quindi, delle future generazioni. Perché la posta in gioco è proprio questa: il bene dei figli, adottati o meno.
Di diritti tutelati dal codice civile e dell'eliminazione di forme di discriminazione verso single e coppie di conviventi etero/omo, si può anche discutere. Ma non si possono introdurre delle leggi, basate su artifizi di comodo, che toccano gli interessi dei più deboli, i bambini per l'appunto. Stiamo assistendo ad una corsa frenetica alla rivendicazione di diritti, ma, oltre all’insieme dei doveri nelle relazioni fra adulti, si trascurano soprattutto l’insieme dei doveri verso i figli, i quali, tra le altre cose, hanno l’assoluto bisogno di crescere con un padre e una madre.
A volte temo che, gratta gratta, spingi e spingi, la superficialità e l’incoscienza riusciranno a prevalere. Anche perché le pretese di tanti irresponsabili sono fatte proprie da una certa parte politica, il “chi di dovere” a cui la Marini lancia il suo appello.
Però poi, mi rendo conto che c’è anche gente - ed è la maggioranza - che continua ad avere i piedi per terra. Libero infatti, in un altro articolo, cita questi dati:

«Un sondaggio condotto da “Eurobarometro”, l’Istituto di ricerca della Commissione europea, mostra come solo un italiano su tre sia favorevole al matrimonio tra omosessuali, il 31% contro una media dei 25 Paesi della Ue del 44% (la punta è l’Olanda con l’82%). Percentuale che scende ancora, al 24% (contro il 32% della media europea), sull’adozione di un bimbo da parte di una coppia omosessuale».

Non tutto è perduto!

Wednesday, December 13, 2006

Famiglia alternativa? La risposta sfuggita a Otto e mezzo

Nella puntata di Otto e mezzo trasmessa ieri sera si parlava delle coppie di fatto omosessuali. È stato ripreso il concetto che il matrimonio trova il suo fondamento nella procreazione. Da qui emerge la famiglia ‘tradizionale’ o ‘naturale’ così come stabilita dalla Costituzione. Ne consegue che, in forza dell’assenza del fine procreativo, è insensato attribuire a coppie omosessuali diritti e doveri assimilabili, se non addirittura equivalenti, a quelli prodotti dal matrimonio.
Un ospite del programma, di cui non ricordo il nome, ha riproposto il concetto di famiglia di chi sostiene il matrimonio omosessuale, ovvero quello secondo cui basta l’affetto che lega due persone. Obiettando l’ammissibilità esclusiva del matrimonio eterosessuale, costui ha poi affermato che, se ci si limita a considerare la finalità della procreazione, non si comprende perché viene riconosciuto dalla legge e dal sentire comune il matrimonio di coppie etero sterili e di coppie etero formate da anziani.
Né Ferrara, né l’Armeni, né gli altri partecipanti alla trasmissione hanno replicato a questa argomentazione. Sarebbe stato invece opportuno ribadire che la capacità procreativa è insita nelle coppie etero. Ovviamente, tale capacità non c’è nel caso specifico di coppie sterili e di coppie anziane, ma ciò costituisce l’eccezione che conferma la regola. Al contrario, alle coppie omo la capacità procreativa è sempre e comunque preclusa per natura.

Thursday, December 07, 2006

Il corpo di Piergiorgio non è un caso esemplare

Ha trasformato la sua storia in una questione politica, ma la sua esperienza non è un valore universale

Piergiorgio Welby sta diventando sempre più un simbolo astratto, lo strumento improprio di una guerra culturale e ideologica, non il protagonista di una struggente storia di sofferenza personale. La confusione è alimentata dal fatto di essere un militante radicale, e dunque il suo dare corpo, il proprio corpo, alla battaglia sull’eutanasia, è anche un effetto consapevolmente cercato. Invece forse sarebbe necessario separare quanto nella sua situazione è legato alla irriducibile unicità di ogni destino individuale, e quanto si può ricondurre a criteri generali e a questioni di diritto più ampie; in altre parole, un conto è tentare di risolvere il problema umano del malato Welby, un conto stabilire che il suo caso ha connotazioni talmente tipiche e di interesse generale da richiedere una soluzione legislativa su misura.
Nel 2002 Welby, da tempo affetto da sclerosi laterale amiotrofica, scriveva: «Poniamo il caso che un medico vi dicesse: Mi dispiace, lei ha una malattia incurabile e le resta poco da vivere. A questo punto dovrò farle un buco in pancia (gastrostomia) per poterla alimentare. Dovrò praticarle un foro nel collo (tracheostomia) per permetterle di respirare (...) In queste condizioni, tuttavia, potrà vivere ancora qualche anno o più. E poniamo poi il caso di un altro medico che invece vi dicesse: Mi dispiace, lei ha una malattia incurabile e le resta poco da vivere, però noi potremmo ridurre le sue sofferenze al minimo e, su sua richiesta, procurarle una morte indolore. Voi quale dei due medici scegliereste?».
La domanda andrebbe articolata in maniera un po’ diversa. Per la legge italiana il medico non può procurare attivamente la morte, ma il paziente può rifiutare la cura, anche se il suo rifiuto crea dilemmi etici laceranti. Chi ritiene che vivere appesi ai tubi sia una menomazione intollerabile, ha tutto il diritto di dire no pur sapendo di andare incontro alla morte, e optare quindi per cure palliative, per forme di sedazione che attutiscano la sofferenza. Quando però Welby si è trovato davanti alla tragica scelta, contrariamente a quanto aveva scritto, ha deciso per la respirazione artificiale. Secondo il suo racconto, a cui crediamo pienamente, è stata la moglie a non rispettare le sue raccomandazioni. Questo però non risolve il problema, anzi ne apre altri: se lasciar morire un malato che soffre è un atto di pietà, come mai l’istinto amoroso porta a disobbedire a qualcuno pur di prolungargli l’esistenza? E perché se nemmeno una persona cara ha questo coraggio, lo deve avere un medico il cui scopo professionale è salvare vite umane? Francesco D’Agostino chiedeva, in un dibattito, quale dottore rinuncerebbe a prestare ogni cura possibile a chi abbia compiuto un tentativo di suicidio, solo perché ha in tasca una lettera in cui esprime al di là di ogni dubbio la propria volontà di morire.
Ancora oggi, secondo quel che hanno detto gli specialisti che ad ottobre si sono riuniti nella sede del Partito radicale per discutere il caso Welby, staccare quella spina si può. Se il problema fosse soltanto interrompere la respirazione artificiale e lenire le sofferenze che ne seguono, la soluzione si troverebbe, come ha affermato anche il presidente dell’Ordine dei medici, Amedeo Bianco. Ma Welby non vuole questo. La sua richiesta è un’altra: «È mia ferma decisione rinunciare alla ventilazione polmonare assistita. Staccare la spina mi porterebbe ad una agonia lunga e dolorosa. Anche una sedazione protratta nel tempo non mi garantirebbe una morte immediata senza dolore. Chiedo: è possibile che mi sia somministrata una sedazione terminale che mi permetta di poter staccare la spina senza dover soffrire?». Welby non chiede un accompagnamento medico verso una fine il più possibile priva di sofferenze, ma una sedazione terminale con effetti immediati, cioè un suicidio di stato.
Emanuele Severino sostiene che esiste una grave disparità tra chi può darsi la morte autonomamente e chi invece non può farlo, e che il suicidio assistito servirebbe soltanto a ristabilire l’equilibrio. Dimentica che, se la legge non punisce più chi tenta il suicidio, non è ancora arrivata a promuoverlo, e che una legge interiore, non scritta (possiamo chiamarla naturale?) ci spinge a contrastare l’aspirante suicida, fino a salvargli la vita suo malgrado. L’equivalenza, poi, si stabilirebbe solo se si prescrivesse per legge un aiuto statale per chiunque, causa incapacità pratica o mancanza di coraggio, desideri morire e non ce la faccia. Con questa logica si potrebbe decidere che chi esprime con assoluta chiarezza la propria volontà di buttarsi dal balcone o infilare la testa nel forno vada assistito da un pubblico ufficiale. Perché un impedimento di ordine psicologico deve avere meno peso di uno di ordine fisico? E perché non ammettere l’eutanasia anche per le sofferenze psichiche, come in Belgio? Una volta che lo Stato entra nella delicata questione, è giusto che fornisca assistenza a chiunque ne senta il bisogno, senza discriminazioni.
Il caso Welby può valere come una sollecitazione a occuparsi dei problemi connessi con la dignità della fine, dalla necessità di incrementare il ricorso alle cure palliative a quella di evitare l’accanimento terapeutico, e il presidente Napolitano ha fatto bene a non lasciare cadere nel silenzio la sua lettera. Ma in nessun modo può diventare un caso esemplare su cui costruire una legge, così come non lo possono diventare le mille storie di sofferenza personale, diversissime tra loro, di tanti malati che avrebbero qualcosa da dire sulla situazione della sanità italiana, ma che nessuno interroga.

Eugenia Roccella (il Giornale)

Tuesday, December 05, 2006

Sulla ‘dolce’ morte

nullo, in Digiuno di morte, sostiene la rivendicazione di Piergiorgio Welby di esser lasciato morire. Pubblico le parti salienti dello scambio di opinioni col sottoscritto. Qui non si tratta di prendersi troppo sul serio; è l’argomento ad essere fin troppo serio.

Hoka Hey
Da cattolico, la questione mi crea dubbi tremendi. Ogni volta che guardo le immagini di Welby e penso che lo stesso potrebbe accadere a me, sono in difficoltà.
Da cristiano - spero di esserlo ancora per quello che sto per dire - penso, o meglio, comincio a pensare che la decisione di un adulto di morire riguardi solo lui e la sua coscienza. L'anima se la sbrigherà con Dio quando sarà al Suo cospetto.
Mi rendo conto che la morte di un uomo e la sua scelta di morire non riguardino effettivamente solo lui, ma tutta l’umanità. Però, se è vero, come è vero, che Dio ci ha dotati di libero arbitrio, vuol dire anche che, almeno in quei momenti, quando cioè viene fuori tutto ciò che c’è nell’uomo, lui possa decidere di se stesso. Ho grande rispetto per chi voglia morire in conseguenza di una malattia i cui effetti vanno al di là della sua capacità di sopportazione. Il problema che mi angustia però è questo: e se anche il dolore legato alla malattia fosse volontà di Dio? Chi sono io per dire a Dio: non me ne frega niente dei tuoi progetti, del tuo disegno per me e per l’umanità? Ovviamente, mi riferisco a me stesso nei panni di Welby. Lui è ovviamente libero di scegliere quello che ritiene più opportuno.

nullo
(…) Riconoscere, cristianamente, (…) che la morte sia una questione tra l’individuo e dio, mi sembra una maniera per riconoscere la libertà di coscienza dell’individuo - che è tutto quello che chiediamo.
Con i cattolici (…) si può dialogare. La domanda è: sarà possibile dialogare anche con il Vaticano?

Hoka Hey
(…) Un adulto, diversamente da un bambino, ha autonomia di giudizio. Io sono fra quelli che sono contrari tanto all’eutanasia dei bambini, che all’aborto che alla soppressione degli embrioni per fini scientifico-terapeutici. In altri termini, io penso che nessuno possa decidere della morte di chicchessia. Un uomo può decidere solo della propria morte. Ok, conosco l’obiezione: ma tu accetteresti di uccidere una persona gravemente malata che da sola non può togliersi la vita? No, perché certe cose appartengono solo a Dio. E tutto ciò mi mette ancora più in crisi.

nullo
C’è il dilemma intermedio su cui vorrei la tua posizione. Dici che al diretto interessato deve essere concesso di decidere di morire, ma che né tu, né nessuno, ha il diritto di decidere per lui/lei. Ma se la decisione è stata presa dal diretto interessato, autonomamente, tu permetteresti che qualcun’altro la metta in atto?

Hoka Hey
Se fossi io il medico, non staccherei la spina, perché farlo significherebbe sostituirmi a Dio. Capisco che è il malato ad autorizzarmi, ma io mi rifiuterei.
Se fossi io il malato, vorrei che qualcuno lo facesse per me, credo, ma, in un momento di lucidità, comprenderei il rifiuto altrui di assecondarmi.
Se un medico decidesse di assecondare la richiesta di un malato di staccare la spina, penso che sarebbero due le anime che dovranno vedersela con Dio, ma mi asterrei dall'esprimere giudizi su entrambi (medico e malato).
In altri termini, penso che la concreta attuazione di farla finita spetti solo e unicamente al malato. Non coinvolgerei nessuno, perché solo io sono responsabile di fronte a Dio delle mie azioni. Ammetto che sarei tormentato dal pensiero di offenderLo, però, se fossi veramente disperato, Lo pregherei di perdonarmi.

nullo
Quindi, mi sembra, suicidio sì, ma eutanasia no. Questa è la tua posizione. Sbaglio?

Hoka Hey
Sì, suicidio. Povero me!