Tuesday, December 23, 2008

Buon Natale

Auguri di Buon Natale a tutti i visitatori di questo blog. Il mio regalo, se così si può dire, è un articolo di Vittorio Messori, in cui si spiega che “Gesù nacque davvero quel 25 dicembre”.
Il Ferragosto non è così lontano ed io devo fare ammenda. Succede, infatti, che in un momento di malumore - e proprio su questo giornale - abbia auspicato che la Chiesa si decida a una modifica del calendario: spostare al 15 di agosto quel che celebra il 25 di dicembre. Un Natale nel deserto estivo, argomentavo, ci libererebbe dalle insopportabili luminarie, dalle stucchevoli slitte con renne e babbinatali, persino dall’obbligo degli auguri e dei regali. Quando tutti sono via, quando le città sono vuote, a chi - e dove - mandare cartoline e consegnare pacchi con nastri e fiocchetti? Non sono i vescovi stessi a tuonare contro quella sorta di orgia consumistica cui sono ridotti i nostri Natali? E allora, spiazziamo i commercianti, spostiamo tutto a Ferragosto. La cosa, osservavo, non sembra impossibile: in effetti, non fu la necessità storica, fu la Chiesa a scegliere il 25 dicembre per contrastare e sostituire le feste pagane nei giorni del solstizio d’inverno. La nascita del Cristo al posto della rinascita del Sol invictus.

All’inizio, dunque, ci fu una decisione pastorale che può essere mutata, variando le necessità. Una provocazione, ovviamente, che si basava però su ciò che è (o, meglio, era) pacificamente ammesso da tutti gli studiosi: la collocazione liturgica del Natale è una scelta arbitraria, senza collegamento con la data della nascita di Gesù, che nessuno sarebbe in grado di determinare. Ebbene, pare proprio che gli esperti si siano sbagliati; e io, ovviamente, con loro. In realtà oggi, anche grazie ai documenti di Qumran, potremmo essere in grado di stabilirlo con precisione: Gesù è nato proprio un 25 dicembre. Una scoperta straordinaria sul serio e che non può essere sospettata di fini apologetici cristiani, visto che la dobbiamo a un docente, ebreo, della Università di Gerusalemme. Vediamo di capire il meccanismo, che è complesso ma affascinante. Se Gesù è nato un 25 dicembre, il concepimento verginale è avvenuto, ovviamente, 9 mesi prima. E, in effetti, i calendari cristiani pongono al 25 marzo l’annunciazione a Maria dell’angelo Gabriele. Ma sappiamo dallo stesso Vangelo di Luca che giusto sei mesi prima era stato concepito da Elisabetta il precursore, Giovanni, che sarà detto il Battista. La Chiesa cattolica non ha una festa liturgica per quel concepimento, mentre le antiche Chiese d’Oriente lo celebrano solennemente tra il 23 e il 25 settembre. E, cioè, sei mesi prima dell’Annunciazione a Maria.

Una successione di date logica ma basata su tradizioni inverificabili, non su eventi localizzabili nel tempo. Così credevano tutti, fino a tempi recentissimi. In realtà, sembra proprio che non sia così. In effetti, è giusto dal concepimento di Giovanni che dobbiamo partire. Il Vangelo di Luca si apre con la storia dell’anziana coppia, Zaccaria ed Elisabetta, ormai rassegnata alla sterilità, una delle peggiori disgrazie in Israele. Zaccaria apparteneva alla casta sacerdotale e, un giorno che era di servizio nel tempio di Gerusalemme, ebbe la visione di Gabriele (lo stesso angelo che sei mesi dopo si presenterà a Maria, a Nazareth) che gli annunciava che, malgrado l’età avanzata, lui e la moglie avrebbero avuto un figlio. Dovevano chiamarlo Giovanni e sarebbe stato "grande davanti al Signore". Luca ha cura di precisare che Zaccaria apparteneva alla classe sacerdotale di Abia e che quando ebbe l’apparizione "officiava nel turno della sua classe". In effetti, coloro che nell’antico Israele appartenevano alla casta sacerdotale erano divisi in 24 classi che, avvicendandosi in ordine immutabile, dovevano prestare servizio liturgico al tempio per una settimana, due volte l’anno. Sapevamo che la classe di Zaccaria, quella di Abia, era l’ottava, nell’elenco ufficiale. Ma quando cadevano i suoi turni di servizio? Nessuno lo sapeva. Ebbene, utilizzando anche ricerche svolte da altri specialisti e lavorando, soprattutto, su testi rinvenuti nella biblioteca essena di Qumran, ecco che l’enigma è stato violato dal professor Shemarjahu Talmon che, come si diceva, insegna alla Università ebraica di Gerusalemme. Lo studioso, cioè, è riuscito a precisare in che ordine cronologico si susseguivano le 24 classi sacerdotali. Quella di Abia prestava servizio liturgico al tempio due volte l’anno, come le altre, e una di quelle volte era nell’ultima settimana di settembre.

Dunque, era verosimile la tradizione dei cristiani orientali che pone tra il 23 e il 25 settembre l’annuncio a Zaccaria. Ma questa verosimiglianza si è avvicinata alla certezza perché, stimolati dalla scoperta del professor Talmon, gli studiosi hanno ricostruito la "filiera" di quella tradizione, giungendo alla conclusione che essa proveniva direttamente dalla Chiesa primitiva, giudeo-cristiana, di Gerusalemme. Una memoria antichissima quanto tenacissima, quella delle Chiese d’Oriente, come confermato in molti altri casi. Ecco, dunque, che ciò che sembrava mitico assume, improvvisamente, nuova verosimiglianza. Una catena di eventi che si estende su 15 mesi: in settembre l’annuncio a Zaccaria e il giorno dopo il concepimento di Giovanni; in marzo, sei mesi dopo, l’annuncio a Maria; in giugno, tre mesi dopo, la nascita di Giovanni; sei mesi dopo, la nascita di Gesù. Con quest’ultimo evento arriviamo giusto al 25 dicembre. Giorno che, dunque, non fu fissato a caso. Ma sì, pare proprio che il Natale a Ferragosto sia improponibile. Ne farò, dunque, ammenda ma, più che umiliato, piuttosto emozionato: dopo tanti secoli di ricerca accanita i Vangeli non cessano di riservare sorprese. Dettagli apparentemente inutili (che c’importava che Zaccaria appartenesse alla classe sacerdotale di Abia? Nessun esegeta vi prestava attenzione) mostrano all’improvviso la loro ragion d’essere, il loro carattere di segni di una verità nascosta ma precisa. Malgrado tutto, l’avventura cristiana continua.

Vittorio Messori, Corriere della sera del 9 luglio 2003

Wednesday, December 10, 2008

Consigli per gli acquisti nel Paese dei furbi, ovvero chiodo scaccia chiodo

Il figlio poco più che ventenne di una collega di mia moglie entra in un negozio Louis Vuitton per fare un regalo alla sua ragazza. La scelta cade su di un portafogli. Prezzo: qualcosa intorno alle 300 euro. Alla faccia della crisi!
Il giovane esce dal negozio tutto soddisfatto e si immerge nella folla. Dopo aver fatto una ventina di metri, getta distrattamente lo sguardo sulla mercanzia che alcuni vu cumprà espongono sul marciapiede. “Toh, ma guarda quel portafogli! Assomiglia proprio a quello che ho appena comprato!”, pensa il ragazzo. Si ferma, si china, lo prende, lo osserva con attenzione, e … marca, modello, colore, cuciture: due gocce d’acqua. “Quanto costa?”, chiede al venditore africano. 10 euro!!! Il giovane ribolle di rabbia. Lo compra.
La mattina seguente, il figlio della collega di mia moglie torna nel negozio Louis Vuitton con in mano il suo bel pacchetto e lo scontrino. Si rivolge alla commessa, la stessa che l’aveva servito il giorno prima: “Si ricorda che ieri ho comprato questo portafogli?”. La commessa annuisce con un sorriso smagliante. “La mia ragazza è rimasta contentissima del regalo. Però, preferirebbe avere lo stesso portafogli di un altro colore. È possibile cambiarlo?”. La commessa, gentilissima, risponde che senz’altro si può. Prende il portafogli che il giovane aveva acquistato dal vu cumprà a 10 euro, senza alcuna esitazione lo mette da parte e ne tira fuori altri tra cui fare la nuova scelta. Il giovane esce dal negozio con il regalo bello e pronto anche per la mamma.
Dalle mie parti si dice: “Sopra il fino c’è lo strafino”.

Wednesday, December 03, 2008

ONU, lobby gay e laicisti: siamo alle solite!

Se non ci fosse la Chiesa cattolica, se non ci fossero la Santa Sede e la gerarchia ecclesiastica, chi mai, oggi, difenderebbe la famiglia naturale? e la vita dal concepimento alla morte? e i diritti dei più deboli, dei più indifesi? La risposta è ovvia: NESSUNO!
Che poi la Chiesa venga fraintesa, insultata, calunniata, ridicolizzata, proprio per effetto del suo testimoniare il Vangelo, del suo "essere nel mondo ma non del mondo", non deve sorprendere né scandalizzare.

Come scrivevo nel blog dell’amico Piergiobbe, oramai mi annoiano al limite del sopportabile le contestazioni degli anticattolici e dei laicisti. L’obiettivo vero di quei signori lì è che la Chiesa cattolica esca dalla scena pubblica una volta e per tutte, oppure che scenda a patti con il relativismo morale sullo stile di quanto fanno le chiese cristiane riformate. Illusi, certo, ma, dalla prospettiva di un cattolico, serve a qualcosa discutere con chi ti odia o ti vuole gay a prescindere?
In un secondo momento, mi sono reso conto che può essere controproducente restare in silenzio. Ciò su cui contano i figuri di cui sopra non è proprio la passività del popolo cattolico? non si sforzano costoro di diffondere errori e spargere confusione tra i fedeli allo scopo di separarli dall’istituzione ecclesiastica?
Su segnalazione di Piergiobbe, riporto quindi un articolo di Andrea Tornielli (pubblicato su Il Giornale di ieri) che chiarisce la posizione del Vaticano e fa giustizia della recente ammuina anticlericale dei soliti noti.
L’ennesima tempesta in un bicchier d’acqua ha fatto passare ieri il Vaticano come un regime autoritario e fondamentalista che vuole la criminalizzazione dell’omosessualità. A scatenarla, con parole peraltro inequivocabili che non si prestano ad ambigue interpretazioni, è stata l’intervista che l’agenzia cattolica francese I.Media ha fatto all’arcivescovo Celestino Migliore, Osservatore permanente della Santa sede presso le Nazioni Unite, nella quale il diplomatico vaticano ha preso le distanze dal progetto di dichiarazione che la Francia, a nome dell’Unione europea, ha intenzione di presentare all’Onu per chiedere il pari trattamento di ogni orientamento sessuale e, fra l’altro, la depenalizzazione dell’omosessualità nei Paesi di tutto il mondo. «Tutto ciò che va in favore del rispetto e della tutela delle persone fa parte del nostro patrimonio umano e spirituale», ha risposto monsignor Migliore, citando il Catechismo della Chiesa cattolica «che dice, e non da oggi, che nei confronti delle persone omosessuali si deve evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione». «Ma qui - ha aggiunto - la questione è un’altra. Con una dichiarazione di valore politico, sottoscritta da un gruppo di Paesi, si chiede agli Stati e ai meccanismi internazionali di attuazione e controllo dei diritti umani di aggiungere nuove categorie protette dalla discriminazione, senza tener conto che, se adottate, esse creeranno nuove e implacabili discriminazioni. Per esempio, gli Stati che non riconoscono l’unione tra persone dello stesso sesso come “matrimonio” verranno messi alla gogna e fatti oggetto di pressioni».
Queste parole sono state prese a pretesto per far credere che la Santa sede sia favorevole alla galera se non addirittura alla pena di morte per le persone omosessuali, come previsto in alcuni Paesi fondamentalisti. Le cose, ovviamente, non stanno affatto così. In Segreteria di Stato c’è preoccupazione per il progetto della Francia: la depenalizzazione, infatti, «non è l’oggetto del documento» spiegano Oltretevere. La dichiarazione «non cerca tanto di combattere la discriminazione dell’orientamento sessuale quanto di promuovere ogni orientamento sessuale e a questo fine di creare una nuova categoria di discriminazione, senza definirla, in modo da applicarla a tutti i diritti umani». Si vuole dunque, dicono Oltretevere «rileggere tutta le legislazione sui diritti umani alla luce dell’orientamento sessuale, introducendo nuove categorie protette e grazie a questa dichiarazione garantire a qualunque orientamento sessuale un trattamento identico a quello riservato alle persone eterosessuali, ad esempio in materia di matrimonio e di possibilità di adottare bambini». Insomma, un progetto che si propone ben altro rispetto alla depenalizzione e che cerca di far passare un principio al quale si possano poi riferire gli organismi di controllo delle Nazioni Unite, senza che questo sia in realtà mai stato discusso e approvato in aula. «Sulla base di quella nuova categoria di discriminazione - spiegano in Vaticano - si potrà cercare di restringere altri diritti e libertà, come quello alla libertà di espressione e di libertà religiosa».
Senza contare che si parla sempre di «orientamento sessuale» senza mai aver definito l’espressione, che in pratica potrebbe essere applicata anche ad altri orientamenti. Non bisogna infatti dimenticare che in Olanda esiste ufficialmente un partito dei pedofili. Il Vaticano teme che questa dichiarazione, che di per sé non è un documento consensuale dell’Onu, possa rappresentare l’inizio di un processo che miri a esercitare pressioni nei confronti di quegli Stati che non ammettono il matrimonio tra persone dello stesso sesso perché questo divieto rappresenterebbe una lesione dei diritti umani sulla base dell’orientamento sessuale. Già da tempo alcuni esperti hanno lanciato un allarme sulla possibilità che in sede europea e internazionale, grazie al lavoro di gruppi di pressione ben organizzati, siano fatte passare norme in grado di condizionare poi la sovranità dei singoli Paesi.

Monday, December 01, 2008

Ancora su San Paolo e la dottrina della giustificazione

Riporto la seconda parte della catechesi su San Paolo di Sua Santità Benedetto XVI nell’Udienza generale in Piazza San Pietro dello scorso mercoledì 26 novembre.
La dottrina della giustificazione: dalla fede alle opere.

Cari fratelli e sorelle,

nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato della questione di come l'uomo diventi giusto davanti a Dio. Seguendo san Paolo, abbiamo visto che l'uomo non è in grado di farsi “giusto” con le sue proprie azioni, ma può realmente divenire “giusto” davanti a Dio solo perché Dio gli conferisce la sua “giustizia” unendolo a Cristo suo Figlio. E questa unione con Cristo l’uomo l’ottiene mediante la fede. In questo senso san Paolo ci dice: non le nostre opere, ma la fede ci rende “giusti”. Questa fede, tuttavia, non è un pensiero, un'opinione, un'idea. Questa fede è comunione con Cristo, che il Signore ci dona e perciò diventa vita, diventa conformità con Lui. O, con altre parole, la fede, se è vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità. Una fede senza carità, senza questo frutto non sarebbe vera fede. Sarebbe fede morta.

Abbiamo quindi trovato nell'ultima catechesi due livelli: quello della non rilevanza delle nostre azioni, delle nostre opere per il raggiungimento della salvezza e quello della “giustificazione” mediante la fede che produce il frutto dello Spirito. La confusione di questi due livelli ha causato, nel corso dei secoli, non pochi fraintendimenti nella cristianità. In questo contesto è importante che san Paolo nella stessa Lettera ai Galati ponga, da una parte, l’accento, in modo radicale, sulla gratuità della giustificazione non per le nostre opere, ma che, al tempo stesso, sottolinei pure la relazione tra la fede e la carità, tra la fede e le opere: “In Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6). Di conseguenza, vi sono, da una parte, le “opere della carne” che sono “fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria...” (Gal 5,19-21): tutte opere contrarie alla fede; dall’altra, vi è l’azione dello Spirito Santo, che alimenta la vita cristiana suscitando “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22): sono questi i frutti dello Spirito che sbocciano dalla fede.

All’inizio di quest’elenco di virtù è citata l’agape, l'amore, e nella conclusione il dominio di sé. In realtà, lo Spirito, che è l’Amore del Padre e del Figlio, effonde il suo primo dono, l’agape, nei nostri cuori (cfr Rm 5,5); e l’agape, l'amore, per esprimersi in pienezza esige il dominio di sé. Dell’amore del Padre e del Figlio, che ci raggiunge e trasforma la nostra esistenza in profondità, ho anche trattato nella mia prima Enciclica: Deus caritas est. I credenti sanno che nell'amore vicendevole s'incarna l'amore di Dio e di Cristo, per mezzo dello Spirito. Ritorniamo alla Lettera ai Galati. Qui san Paolo dice che, portando i pesi gli uni degli altri, i credenti adempiono il comandamento dell’amore (cfr Gal 6,2). Giustificati per il dono della fede in Cristo, siamo chiamati a vivere nell’amore di Cristo per il prossimo, perché è su questo criterio che saremo, alla fine della nostra esistenza, giudicati. In realtà, Paolo non fa che ripetere ciò che aveva detto Gesù stesso e che ci è stato riproposto dal Vangelo di domenica scorsa, nella parabola dell'ultimo Giudizio. Nella Prima Lettera ai Corinzi, san Paolo si diffonde in un famoso elogio dell’amore. E’ il cosiddetto inno alla carità: “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l'amore, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita... La carità è magnanima, benevola è la carità, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse...” (1 Cor 13,1.4-5). L’amore cristiano è quanto mai esigente poiché sgorga dall’amore totale di Cristo per noi: quell’amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a tormentarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso nel proprio egoismo, ma per “Colui che è morto e risorto per noi” (cfr 2 Cor 5,15). L’amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (cfr 2 Cor 5,17) che entra a far parte del suo Corpo mistico che è la Chiesa.

Vista in questa prospettiva, la centralità della giustificazione senza le opere, oggetto primario della predicazione di Paolo, non entra in contraddizione con la fede operante nell’amore; anzi esige che la nostra stessa fede si esprima in una vita secondo lo Spirito. Spesso si è vista un’infondata contrapposizione tra la teologia di san Paolo e quella di san Giacomo, che nella sua Lettera scrive: “Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta” (2,26). In realtà, mentre Paolo è preoccupato anzitutto di dimostrare che la fede in Cristo è necessaria e sufficiente, Giacomo pone l’accento sulle relazioni consequenziali tra la fede e le opere (cfr Gc 2,2-4). Pertanto sia per Paolo sia per Giacomo la fede operante nell’amore attesta il dono gratuito della giustificazione in Cristo. La salvezza, ricevuta in Cristo, ha bisogno di essere custodita e testimoniata “con rispetto e timore. E’ Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore. Fate tutto senza mormorare e senza esitare... tenendo salda la parola di vita”, dirà ancora san Paolo ai cristiani di Filippi (cfr Fil 2,12-14.16).

Spesso siamo portati a cadere negli stessi fraintendimenti che hanno caratterizzato la comunità di Corinto: quei cristiani pensavano che, essendo stati giustificati gratuitamente in Cristo per la fede, “tutto fosse loro lecito”. E pensavano, e spesso sembra che lo pensino anche cristiani di oggi, che sia lecito creare divisioni nella Chiesa, Corpo di Cristo, celebrare l’Eucaristia senza farsi carico dei fratelli più bisognosi, aspirare ai carismi migliori senza rendersi conto di essere membra gli uni degli altri, e così via. Disastrose sono le conseguenze di una fede che non s’incarna nell’amore, perché si riduce all’arbitrio e al soggettivismo più nocivo per noi e per i fratelli. Al contrario, seguendo san Paolo, dobbiamo prendere rinnovata coscienza del fatto che, proprio perché giustificati in Cristo, non apparteniamo più a noi stessi, ma siamo diventati tempio dello Spirito e siamo perciò chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo con tutta la nostra esistenza (cfr 1 Cor 6,19). Sarebbe uno svendere il valore inestimabile della giustificazione se, comprati a caro prezzo dal sangue di Cristo, non lo glorificassimo con il nostro corpo. In realtà, è proprio questo il nostro culto “ragionevole” e insieme “spirituale”, per cui siamo esortati da Paolo a “offrire il nostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1). A che cosa si ridurrebbe una liturgia rivolta soltanto al Signore, senza diventare, nello stesso tempo, servizio per i fratelli, una fede che non si esprimesse nella carità? E l’Apostolo pone spesso le sue comunità di fronte al giudizio finale, in occasione del quale tutti “dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Cor 5,10; cfr anche Rm 2,16). E questo pensiero del Giudizio deve illuminarci nella nostra vita di ogni giorno.

Se l’etica che Paolo propone ai credenti non scade in forme di moralismo e si dimostra attuale per noi, è perché, ogni volta, riparte sempre dalla relazione personale e comunitaria con Cristo, per inverarsi nella vita secondo lo Spirito. Questo è essenziale: l'etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con Cristo. Questa amicizia influenza la vita: se è vera si incarna e si realizza nell'amore per il prossimo. Per questo, qualsiasi decadimento etico non si limita alla sfera individuale, ma è nello stesso tempo svalutazione della fede personale e comunitaria: da questa deriva e su essa incide in modo determinante. Lasciamoci quindi raggiungere dalla riconciliazione, che Dio ci ha donato in Cristo, dall'amore “folle” di Dio per noi: nulla e nessuno potranno mai separarci dal suo amore (cfr Rm 8,39). In questa certezza viviamo. E’ questa certezza a donarci la forza di vivere concretamente la fede che opera nell'amore.

Tuesday, November 25, 2008

Con Socci a caccia delle orme (razionali) di Gesù

di Michele Brambilla, su Il Giornale di oggi.

È difficile, molto difficile terminare la lettura del nuovo libro di Antonio Socci (Indagine su Gesù, Rizzoli, in libreria da domani) senza venir assaliti perlomeno da un dubbio: e se davvero quell'uomo che ha spezzato la storia in due, avanti Cristo e dopo Cristo, fosse la suprema rivelazione di Dio al mondo? Bisogna essere prevenuti alla massima potenza, anzi bisogna essere fermamente determinati a non volere credere, per liquidare la questione con un'alzata di spalle e un sarcastico commento: tutte balle, tutte vecchie superstizioni, questioni che la ragione ha spazzato via.

Invece è proprio appellandosi alla ragione che Socci, con la sua lunga e dettagliata inchiesta, dimostra che il «caso Gesù» non può essere archiviato: probabilmente, non potrà mai essere archiviato. In fondo, perfino fermandoci a quel limitato frangente che è il caso editoriale italiano di questi ultimi anni, dobbiamo prendere atto che parlare di Gesù è in qualche modo inevitabile. Per anni sono stati ai vertici della classifica libri scritti su quel falegname ebreo vissuto duemila anni fa, e vissuto in modo tale da essere destinato - secondo le categorie degli storici - a un'assoluta ininfluenza.

Senza alcun potere economico, senza esercito, perfino senza chiesa (quella del suo tempo lo rifiutò), Gesù fu - visto con occhi umani - un fallito. Attorniato da quattro gatti che contavano meno di zero nella società del loro tempo (pescatori, vagabondi, nullafacenti) e per giunta tanto vigliacchi da rinnegare il maestro subito dopo la più ignominiosa delle morti (la crocifissione, supplizio riservato alle persone più spregevoli), Gesù - secondo "ragione" - non avrebbe dovuto lasciare alcuna traccia di sé. Invece, da quell'oscuro predicatore vissuto in una remota e insignificante provincia dell'impero è nato quel che sappiamo, e che ancora oggi possiamo vedere con i nostri occhi e toccare con le nostre mani.

Per tornare al piccolo caso editoriale cui facevamo cenno: sono anni, dicevamo, che in Italia spesso ai vertici della classifica ci sono libri su Gesù: scritti per affermare o per negare la sua divinità; ma comunque scritti, e letti da milioni da persone. Alla metà degli anni Settanta ci fu il boom mondiale di Ipotesi su Gesù di Vittorio Messori; in anni recenti, i successi dei libri «contro» di Odifreddi e di Augias; ora, quello di Socci, un credente. C'è insomma anche qui la prova dell'impossibilità di restare indifferenti di fronte a Gesù. Lo si adora o lo si nega: ma con lui si devono fare i conti.

Trova così conferma la celeberrima scommessa pascaliana: a chi diceva di non voler affatto prendere parte nella disputa pro o contro Gesù, il grande filosofo e scienziato francese del Seicento rispondeva: vi sbagliate, scommettere è inevitabile, siete incastrato anche voi; non fosse altro per il fatto che un sì o un no lo si pronuncia, prima ancora che con un'adesione razionale, con la vita. C'è insomma, in questo infinito, invincibile interesse per il Nazareno la conferma di un mistero che ha resistito ai secoli, anzi ai millenni; e una smentita clamorosa a tutta quella cultura del Novecento che riteneva ormai superata, dall'«uomo nuovo», la questione religiosa, e la questione-Gesù in particolare.

L'indagine di Socci è seria, approfondita, documentata; crediamo che pure chi arriverà a conclusioni diverse da quelle dell'autore non potrà comunque non definirla anche «onesta». Socci non nasconde di pensare e scrivere come un apologeta; e dell'apologetica cristiana rispetta lo stile tradizionale: dimostrazione divina; dimostrazione cristiana; dimostrazione cattolica. Dio, Cristo e la Chiesa: sono questi i tre capisaldi del cattolico credente.

È chiaro che se si nega il primo «tassello», Dio (e Dio ci perdoni di averlo definito un «tassello»), cade anche tutto il resto. Socci parte quindi con la questione-Dio: e lo fa in modo avvincente, incalzante, smontando il luogo comune oggi assai in voga (in realtà più in certa pubblicistica che fra scienziati) che vorrebbe far credere un'incompatibilità tra scienza e fede in un Creatore. Si parte dalla clamorosa conversione, avvenuta quattro anni fa, del filosofo Antony Flew, per decenni simbolo mondiale dell'ateismo scientifico e padrino degli attuali divulgatori dell'inesistenza di Dio come Richard Dawkins. Il cambiamento di Flew fece enorme impressione, perché non avvenne per una crisi di coscienza personale o per una storia privata. Fu, al contrario, il naturale sbocco della sua indagine sull'origine dell'universo e della vita: «La mia scoperta del Divino è stata un itinerario (pellegrinaggio) della ragione e non della fede».

Flew mandò in crisi l'ateismo scientifico anche e soprattutto perché la sua non fu la conversione a una religione (il che avrebbe necessariamente comportato un atteggiamento di fede, oltre che di ragione), bensì al puro e semplice deismo: alla convinzione, cioè, che l'esistenza dell'universo e della vita sono inspiegabili senza quella di un'entità superiore intelligente. È la stessa convinzione che avevano personaggi abusivamente arruolati, oggi, dagli atei militanti, come Voltaire («Geometri, non filosofi, hanno potuto rigettare le cause finali, ma i veri filosofi le ammettono») o Rousseau («A quali occhi non prevenuti l'ordine sensibile dell'universo non annuncia una suprema intelligenza?»).

Socci prosegue in questo capitolo introduttivo riportando le posizioni dei più grandi scienziati contemporanei, da Einstein a Hawking, dagli studiosi del Big Bang a quelli del Dna: tutti concordi nel riconoscere che la più ragionevole delle risposte di fronte al mistero dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo, così come di fronte allo stupore per la meravigliosa complessità anche del più minuscolo organismo vivente, è quella di ammettere un Creatore. Insomma, un qualcosa che chiamiamo Dio.

Ma se la scienza e la ragione - sempre più, contrariamente a quanto si vuol far credere - portano al riconoscimento dell'esistenza di un Dio, più fitto si fa l'enigma se cerchiamo di passare dall'esistenza all'essenza. Dio c'è. Ma chi è? L'uomo, da solo, non lo può capire. Per la tradizione giudaico-cristiana, Dio stesso ha scelto di rivelarsi entrando nella storia, prima scegliendosi un popolo come testimone, e poi (per i cristiani) addirittura facendosi uomo. È l'Incarnazione lo scandalo supremo, e Socci cerca di dimostrare, perlomeno, che non c'è contrasto tra la ragione e la fede in quell'avvenimento inaudito.

E qui si arriva al cuore di questa Indagine su Gesù. Gli argomenti, ma direi soprattutto i fatti elencati da Socci, sono tanti e così dettagliati che un sunto, qui, farebbe torto al libro. Lasciamo al lettore il gusto di scoprire, una dopo l'altra, pagine che appassionano. Sono pagine, appunto, su un personaggio che continua a dividere. C'è chi si batte per annunciarlo al mondo; e chi per ridurlo al rango di una leggenda. Il mistero è destinato a restare probabilmente alla fine dei tempi, perché per la fede occorre comunque, e sempre, uno scatto del cuore. Ma come diceva un grande accademico di Francia, il filosofo Jean Guitton, «chi crede, crede in un mistero; ma chi non crede, crede nell'assurdo».

Monday, November 24, 2008

San Paolo (Lutero) e la lezione sulla giustificazione

Riporto la catechesi su San Paolo di Sua Santità Benedetto XVI nell’Udienza generale in Piazza San Pietro dello scorso mercoledì 19 novembre.
Cari fratelli e sorelle,
nel cammino che stiamo compiendo sotto la guida di san Paolo, vogliamo ora soffermarci su un tema che sta al centro delle controversie del secolo della Riforma: la questione della giustificazione. Come diventa giusto l’uomo agli occhi di Dio? Quando Paolo incontrò il Risorto sulla strada di Damasco era un uomo realizzato: irreprensibile quanto alla giustizia derivante dalla Legge (cfr Fil 3,6), superava molti suoi coetanei nell’osservanza delle prescrizioni mosaiche ed era zelante nel sostenere le tradizioni dei padri (cfr Gal 1,14). L’illuminazione di Damasco gli cambiò radicalmente l'esistenza: cominciò a considerare tutti i meriti, acquisiti in una carriera religiosa integerrima, come “spazzatura” di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (cfr Fil 3,8). La Lettera ai Filippesi ci offre una toccante testimonianza del passaggio di Paolo da una giustizia fondata sulla Legge e acquisita con l'osservanza delle opere prescritte, ad una giustizia basata sulla fede in Cristo: egli aveva compreso che quanto fino ad allora gli era parso un guadagno in realtà di fronte a Dio era una perdita e aveva deciso perciò di scommettere tutta la sua esistenza su Gesù Cristo (cfr Fil 3,7). Il tesoro nascosto nel campo e la perla preziosa nel cui acquisto investire tutto il resto non erano più le opere della Legge, ma Gesù Cristo, il suo Signore.

Il rapporto tra Paolo e il Risorto diventò talmente profondo da indurlo a sostenere che Cristo non era più soltanto la sua vita ma il suo vivere, al punto che per poterlo raggiungere persino il morire diventava un guadagno (cfr Fil 1,21). Non che disprezzasse la vita, ma aveva compreso che per lui il vivere non aveva ormai altro scopo e non nutriva perciò altro desiderio che di raggiungere Cristo, come in una gara di atletica, per restare sempre con Lui: il Risorto era diventato l’inizio e il fine della sua esistenza, il motivo e la mèta della sua corsa. Soltanto la preoccupazione per la maturazione nella fede di coloro che aveva evangelizzato e la sollecitudine per tutte le Chiese da lui fondate (cfr 2 Cor 11,28) lo inducevano a rallentare la corsa verso il suo unico Signore, per attendere i discepoli affinché con lui potessero correre verso la mèta. Se nella precedente osservanza della Legge non aveva nulla da rimproverarsi dal punto di vista dell’integrità morale, una volta raggiunto da Cristo preferiva non pronunciare giudizi su se stesso (cfr 1 Cor 4,3-4), ma si limitava a proporsi di correre per conquistare Colui dal quale era stato conquistato (cfr Fil 3,12).

È proprio per questa personale esperienza del rapporto con Gesù Cristo che Paolo colloca ormai al centro del suo Vangelo un’irriducibile opposizione tra due percorsi alternativi verso la giustizia: uno costruito sulle opere della Legge, l’altro fondato sulla grazia della fede in Cristo. L’alternativa fra la giustizia per le opere della Legge e quella per la fede in Cristo diventa così uno dei motivi dominanti che attraversano le sue Lettere: “Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato per le opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù, per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno” (Gal 2,15-16). E ai cristiani di Roma ribadisce che “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù (Rm 3,23-24). E aggiunge “Noi riteniamo, infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge” (Ibid 28). Lutero a questo punto tradusse: “giustificato per la sola fede”. Ritornerò su questo punto alla fine della catechesi. Prima dobbiamo chiarire che cosa è questa “Legge” dalla quale siamo liberati e che cosa sono quelle “opere della Legge” che non giustificano. Già nella comunità di Corinto esisteva l’opinione che sarebbe poi ritornata sistematicamente nella storia; l’opinione consisteva nel ritenere che si trattasse della legge morale e che la libertà cristiana consistesse quindi nella liberazione dall’etica. Così a Corinto circolava la parola “πάντα μοι έξεστιν” (tutto mi è lecito). E’ ovvio che questa interpretazione è sbagliata: la libertà cristiana non è libertinismo, la liberazione della quale parla san Paolo non è liberazione dal fare il bene.

Ma che cosa significa dunque la Legge dalla quale siamo liberati e che non salva? Per san Paolo, come per tutti i suoi contemporanei, la parola Legge significava la Torah nella sua totalità, cioè i cinque libri di Mosè. La Torah implicava, nell’interpretazione farisaica, quella studiata e fatta propria da Paolo, un complesso di comportamenti che andava dal nucleo etico fino alle osservanze rituali e cultuali che determinavano sostanzialmente l’identità dell’uomo giusto. Particolarmente la circoncisione, le osservanze circa il cibo puro e generalmente la purezza rituale, le regole circa l’osservanza del sabato, ecc. Comportamenti che appaiono spesso anche nei dibattiti tra Gesù e i suoi contemporanei. Tutte queste osservanze che esprimono una identità sociale, culturale e religiosa erano divenute singolarmente importanti al tempo della cultura ellenistica, cominciando dal III secolo a.C. Questa cultura, che era diventata la cultura universale di allora, ed era una cultura apparentemente razionale, una cultura politeista, apparentemente tollerante, costituiva una pressione forte verso l’uniformità culturale e minacciava così l’identità di Israele, che era politicamente costretto ad entrare in questa identità comune della cultura ellenistica con conseguente perdita della propria identità, perdita quindi anche della preziosa eredità della fede dei Padri, della fede nell’unico Dio e nelle promesse di Dio.

Contro questa pressione culturale, che minacciava non solo l’identità israelitica, ma anche la fede nell’unico Dio e nelle sue promesse, era necessario creare un muro di distinzione, uno scudo di difesa a protezione della preziosa eredità della fede; tale muro consisteva proprio nelle osservanze e prescrizioni giudaiche. Paolo, che aveva appreso tali osservanze proprio nella loro funzione difensiva del dono di Dio, dell’eredità della fede in un unico Dio, ha visto minacciata questa identità dalla libertà dei cristiani: per questo li perseguitava. Al momento del suo incontro con il Risorto capì che con la risurrezione di Cristo la situazione era cambiata radicalmente. Con Cristo, il Dio di Israele, l’unico vero Dio, diventava il Dio di tutti i popoli. Il muro – così dice nella Lettera agli Efesini – tra Israele e i pagani non era più necessario: è Cristo che ci protegge contro il politesimo e tutte le sue deviazioni; è Cristo che ci unisce con e nell’unico Dio; è Cristo che garantisce la nostra vera identità nella diversità delle culture. Il muro non è più necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cristo, ed è lui che ci fa giusti. Essere giusto vuol semplicemente dire essere con Cristo e in Cristo. E questo basta. Non sono più necessarie altre osservanze. Perciò l’espressione “sola fide” di Lutero è vera, se non si oppone la fede alla carità, all’amore. La fede è guardare Cristo, affidarsi a Cristo, attaccarsi a Cristo, conformarsi a Cristo, alla sua vita. E la forma, la vita di Cristo è l’amore; quindi credere è conformarsi a Cristo ed entrare nel suo amore. Perciò san Paolo nella Lettera ai Galati, nella quale soprattutto ha sviluppato la sua dottrina sulla giustificazione, parla della fede che opera per mezzo della carità (cfr Gal 5,14).

Paolo sa che nel duplice amore di Dio e del prossimo è presente e adempiuta tutta la Legge. Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore. Vedremo la stessa cosa nel Vangelo della prossima domenica, solennità di Cristo Re. È il Vangelo del giudice il cui unico criterio è l'amore. Ciò che domanda è solo questo: Tu mi hai visitato quando ero ammalato? Quando ero in carcere? Tu mi hai dato da mangiare quando ho avuto fame, tu mi hai vestito quando ero nudo? E così la giustizia si decide nella carità. Così, al termine di questo Vangelo, possiamo quasi dire: solo amore, sola carità. Ma non c'è contraddizione tra questo Vangelo e San Paolo. È la medesima visione, quella secondo cui la comunione con Cristo, la fede in Cristo crea la carità. E la carità è realizzazione della comunione con Cristo. Così, essendo uniti a Lui siamo giusti e in nessun altro modo.

Alla fine, possiamo solo pregare il Signore che ci aiuti a credere. Credere realmente; credere diventa così vita, unità con Cristo, trasformazione della nostra vita. E così, trasformati dal suo amore, dall’amore di Dio e del prossimo, possiamo essere realmente giusti agli occhi di Dio.

Wednesday, November 12, 2008

5 cliché da sfatare per ripensare il cattolicesimo

Segnalo un interessante articolo di John Allen Jr., pubblicato da Foreign Policy e riproposto in traduzione italiana da L'Occidentale.
Visto da fuori, il Vaticano sembra resistente al cambiamento e sordo agli scandali. Ma, in verità, la più antica istituzione religiosa del mondo somiglia poco alla chiesa misteriosa immaginata dai teorici della cospirazione. Oggi il Cattolicesimo attrae milioni di nuovi fedeli che abbracciano come credo le tradizioni clericali del dibattito e dell'indipendenza. Sono almeno cinque i cliché che la Chiesa Cattolica sta capovolgendo.

La Chiesa Cattolica si sta contraendo. No. La scarsezza di sacerdoti a livello mondiale, i banchi vuoti in quelle che erano un tempo le roccaforti cattoliche, o la grande quantità di scandali per abusi sessuali, potrebbero far pensare che la Chiesa Cattolica moderna sia in declino. Ma il cattolicesimo sta vivendo il suo più grande periodo di crescita durante la sua Storia millenaria. La popolazione cattolica mondiale è aumentata da 266 milioni nel 1900 a 1,1 miliardi nel 2000, con un incremento del 314%. In confronto, nel secolo scorso, la popolazione mondiale è aumentata del 263%. La chiesa non ha solo dato una mano al baby boom, ha attratto con successo nuovi convertiti.

E' vero, il Cattolicesimo sta diminuendo in Europa, e perderebbe terreno anche negli Stati Uniti se non fosse per gli immigrati, soprattutto gli ispanici. Secondo un recente studio del Foro ecclesiastico il 10% degli americani sono ex-cattolici. Questo declino però è stato più che bilanciato dalla crescita in Africa, Asia e America Latina. Solo nell’Africa sub-sahariana, il numero di cattolici è aumentato di uno sbalorditivo 6.700% nel secolo scorso, da 1.9 milioni a 130 milioni di persone. La Repubblica Democratica del Congo oggi ha lo stesso numero di cattolici di Austria e Germania messe assieme. L’India ha più cattolici del Canada combinato con l’Irlanda.

Quello a cui stiamo assistendo non è una contrazione del Cattolicesimo ma, piuttosto, lo spostamento del suo centro di gravità demografico. Quella che un tempo era una religione ampiamente omogenea, concentrata tra Europa e Nord America, è oggi una fede davvero universale. Nel 1900, solo il 25% dei cattolici viveva nei paesi in via di sviluppo, oggi siamo al 66% e la cifra sta salendo. Tra qualche decina di anni, i nuovi centri del pensiero teologico non saranno più Parigi e Milano, ma Nairobi e Manila.

Oggi però i tassi di fertilità nei paesi in via di sviluppo stanno precipitando, perciò è improbabile che il Cattolicesimo possa mantenere gli stessi tassi di crescita spettacolari durante i prossimi cento anni. In parti dell’America latina, Africa, Asia, il Cattolicesimo sta per essere sorpassato dai suoi concorrenti, specialmente dalle crescenti chiese evangeliche e pentecostali. Tuttavia, la sfida più grande per la Chiesa Cattolica non è quella di far fronte al declino ma quella di gestire bene la transizione verso una fede multiculturale.

Il Cattolicesimo è di destra. Solo in parte. Dipende dalla definizione di “destra” e, in relazione a questo, della Chiesa di cui parliamo. E’ vero che le strutture istituzionali del Cattolicesimo sono istintivamente conservatrici. Nel XIX secolo Papa Gregorio XVI effettivamente bloccò la costruzione delle ferrovie e della illuminazione a gas nello Stato pontificio per timore di quello a cui avrebbero potuto portare queste innovazioni "innaturali". E’ anche vero che su questioni controverse come l’aborto, i matrimoni omosessuali e la ricerca sulla cellule staminali embrionali, le posizioni ufficiali del cattolicesimo si collocano solidamente con la destra culturale.

Tuttavia la Chiesa è sempre stata qualcosa di più della sua gerarchia e la sua posizione originaria è tutt’altro che uniforme. Gli Stati Uniti sono un esempio da questo punto di vista. I cattolici americani erano storicamente democratici e, nonostante gli sforzi aggressivi compiuti dai conservatori nell’era reganiana per corteggiarli, esiste tuttora una parte considerevole dell’elettorato che è cattolico e liberale. La prova è che la maggior parte dei sondaggi d’opinione fatti durante la corsa alle elezioni presidenziali ha mostrato che i cattolici sono equamente divisi tra Barack Obama e John McCain.

Persino le posizioni ufficiali della Chiesa cattolica difficilmente riuscirebbero a ricevere un chiaro via libera dai conservatori comuni. Papa Giovanni Paolo II è stato il principale critico di entrambe le guerre del Golfo. Papa Benedetto XVI ha denunciato la "falsa promessa" del capitalismo e del libero mercato in stile americano ma si è anche distinto come eloquente ambientalista. Nel frattempo la Chiesa Cattolica si è dichiarata contraria alla pena di morte, al commercio delle armi, si è schierata con le Nazioni Unite e a favore all’immigrazione, posizioni fortemente disapprovate da molti esponenti di destra.

I vescovi e i teologi insistono che, data la complessa gamma della dottrina sociale cattolica, la Chiesa non è compatibile con nessuna alleanza laica. John Carr, un veterano consulente per la Conferenza Statunitense dei Vescovi Cattolici, definisce il Cattolicesimo "politicamente senza tetto". Nelle nove elezioni presidenziali tra il 1972 e il 2004, la maggioranza dei cattolici statunitensi ha votato per un Repubblicano cinque volte e per un Democratico quattro. Che sia una questione di insegnamento ufficiale o di opinione di massa, la Chiesa Cattolica difficilmente rappresenta il Partito Repubblicano americano raccolto in preghiera.

La Chiesa è ricca sfondata. Non proprio, sebbene non sia certamente povera. Chiunque sia mai stato a piazza San Pietro a Roma e abbia visto un principe della chiesa (un modo colloquiale per indicare i cardinali cattolici) uscire da una Mercedes nera targata Vaticano potrebbe digerire poco facilmente, e comprensibilmente, questa scena. Tuttavia anche sulla ricchezza della Chiesa Cattolica di solito si esagera. Per esempio si dice che il Vaticano navighi nell’oro ma il suo budget annuo è inferiore a 400 milioni di dollari. In confronto quello dell’Università di Harvard è di 3 miliardi di dollari. Il portfolio del Vaticano in titoli, obbligazioni e proprietà immobiliari, arriva all’incirca a 1 miliardo di dollari. Se vogliamo fare un paragone leggermente stravagante, Forbes ha stimato che Oprah Winfrey, da sola, vale 2.5 miliardi di dollari. I grandiosi tesori artistici del Vaticano, per esempio "La Pietà" di Michelangelo, sono letteralmente senza prezzo; sono elencati nei libri del Vaticano a un valore di 1 euro ciascuno perché non potranno mai essere venduti o prestati.

Nel mondo, le diocesi e le parrocchie talvolta sono grandi proprietari terrieri, e la chiesa gestisce una vasta rete di scuole, ospedali e centri di servizi sociali. Tale infrastruttura può generare dei numeri che possono impressionare. Nel 2001 il reddito annuo dei programmi cattolici negli Stati Uniti giunse a 102 miliardi di dollari. Tuttavia la maggior parte di questi programmi o pareggiano appena o addirittura vanno in rosso, in parte perché spesso vengono realizzati per popolazioni dal basso reddito e per le minoranze. Fuori dall'Europa e dagli Stati Uniti la maggior parte delle diocesi e delle parrocchie tirano avanti con budget da quattro soldi, per non parlare dei missionari che spesso vivono in aree remote in disperata povertà.

I cattolici "dal papa in giù" suggeriscono periodicamente che la Chiesa adotti una maggiore "semplicità" ed è giusto aspettarsi che qualsiasi organizzazione che chiede giustizia per i poveri poi metta in pratica ciò che predica. Ma credere che ci siano borsoni di denaro ammassati in qualche segreta del Vaticano è comunque una immagine ingannevole. Semplicemente non ce ne sono.

La Chiesa non cambia mai. Falso. La realtà non è che la Chiesa non cambia mai, se mai non ammette di essere cambiata. I cattolici più avveduti sanno che quando qualcuno che conta inizia una frase con "Come la chiesa ha sempre insegnato..." qualche idea o pratica longeva sta per essere capovolta. Per esempio la Chiesa una volta considerava prestare il denaro per interesse un peccato di usura, qualcosa che oggi non è più un dogma. Oppure pensiamo a quando i papi erano anche degli amministratori civili che mandavano a morte i criminali; i visitatori a Roma possono farsi un giro al Museo di Criminologia e vedere una ghigliottina papale perfettamente conservata, un regalo da parte di Napoleone. Oggi, sicuramente, la Chiesa Cattolica è un leader nelle campagne mondiali per l'abolizione della pena di morte. Più recentemente, Papa Benedetto XVI ha annullato la credenza nel limbo, un'anticamera ad hoc dell'aldilà per bambini non battezzati.

Gli apologeti potrebbero argomentare che, in questi casi, ciò che è cambiato sono le circostanze storiche e non i principi essenziali. In ogni caso qualcosa di importante ha aperto una strada. Di solito una pressione che monta dalla base alla fine scoppia e determina una svolta, come è accaduto durante il Concilio Vaticano II a metà degli anni Sessanta. Improvvisamente la Messa venne celebrata in "volgare" piuttosto che in latino, il Cattolicesimo passò da posizioni critiche nei confronti della libertà religiosa a mostrarsi come un modello dei diritti umani, e gli "eretici" protestanti divennero "fratelli separati". Questo non significa che tutto può essere capovolto. Un futuro papa non insegnerà mai che Gesù non è mai esistito, che non era il Figlio di Dio, o che il pane e il vino usati nell’Eucarestia non diventano veramente il corpo e il sangue di Cristo. La storia cattolica è sempre una miscela di continuità e di cambiamento. La parte difficile è anticipare cosa potrebbe cambiare e quando.

Il Vaticano è avvolto di segretezza. Non proprio. In realtà il Vaticano è molto meno riservato della maggior parte delle altre istituzioni che hanno una portata globale, il governo degli Stati Uniti, per esempio, o la Coca Cola. Il Vaticano non raccoglie immagini da satelliti spia e non è ossessionato dalla protezione di informazioni che riguardino la progettazione di armi ad alta tecnologia. Non ha segreti commerciali, nessun dipartimento di ricerca e sviluppo, e non ha piani di vendita da tenere nascosti da occhi indiscreti. Il risultato è che gli affari del Vaticano in realtà si svolgono in modo molto più trasparente di quanto si possa immaginare dall’esterno.

E nemmeno quando ci prova il Vaticano è troppo capace di mantenere i propri segreti. E’ una burocrazia, dopotutto, piena di gente dogmatica e fortemente determinata. Prima o poi la maggior parte delle cose salta fuori (c’è un famoso detto secondo cui "Roma è una città in cui tutto è un mistero e niente è un segreto"). Nell’estate del 2007 Papa Benedetto XVI promulgò una decisione attesa da molto tempo con cui veniva dato ai preti il permesso di celebrare l'antica messa in latino. Ma nel momento in cui venne ufficializzata, comunque, la storia era già divenuta meno rilevante visto che il contenuto della decisione era trapelato sulla stampa mesi prima e perciò era stato già abbondantemente sottoposto a uno scrutinio esaustivo.

Il problema con il Vaticano non è la sua segretezza quanto la sua assoluta singolarità. E’ diverso da qualsiasi altra istituzione con cui si possa entrare in contatto, con la sua storia, la sua lingua e i suoi ritmi. Se non si conosce la differenza tra il punto di vista dei Gesuiti e quello dei Domenicani sul tema della Grazia nel XVI secolo, per esempio, o tra "Cotta" e "Alba", dentro il Vaticano ci si troverà spesso dinanzi a conversazioni estremamente difficili da capire. O se non si sa che il sottosegretario nella maggior parte degli uffici è la persona che svolge il vero lavoro può risultare difficile seguire le intricate faccende della Chiesa. Il trucco per decifrare il Vaticano è conoscere a fondo la sua cultura. Farlo significa sollevare facilmente il velo di segretezza che lo circonda.

Il Cattolicesimo è ossessionato dal sesso. No, siete voi ad esserlo. Prima della rivoluzione sessuale del 1960 la maggior parte delle persone avrebbe considerato molto strana l’idea del Cattolicesimo come qualcosa di pudico. L’antico rimprovero verso i cattolici era quello che fossero decisamente propensi ai piaceri della carne, specialmente del sesso e dell’alcool, a differenza dei più astemi Protestanti. Come ha scritto il poeta Hilaire Belloc "laddove splende il sole cattolico ci sono sempre risa e buon vino rosso". Quando i critici di oggi accusano il Cattolicesimo per le sue posizioni bigotte uno immagina i veri puritani che, rigirandosi nella tomba, disprezzavano la Chiesa di Roma e il suo lassismo morale.

Dal 1960, comunque, il Cattolicesimo è stato coinvolto in una controversia pubblica dopo l’altra sulle faccende sessali come i diritti dei gay, le questioni di genere, la famiglia, l’aborto, la contraccezione, l’inseminazione artificiale e altri punti scottanti dell’etica sessuale. Gli insegnamenti cattolici che un tempo etichettavano la persona media come moderata e perfino permissiva, ad esempio incoraggiando ad avere una famiglia numerosa, oggi sembrano positivamente antiquati alla maggior parte degli osservatori.

Il fatto è che gli insegnamenti sul sesso e sul genere sono contestati perfino all’interno della Chiesa stessa. Alcuni sondaggi dimostrano che una solida maggioranza di Cattolici, perlomeno negli Stati Uniti, non è d’accordo con le posizioni ufficiali della Chiesa su questioni come la contraccezione, la fertilizzazione in vitro e sul matrimonio per i sacerdoti. Maggioranze più ristrette vorrebbero l’ordinamento delle donne al sacerdozio e si oppongono senza mezzi termini all'aborto. E quando i Cattolici americani puntano su un candidato sia le faccende della vita privata sia le questioni di giustizia sociale, come l’assistenza per le famiglie in difficoltà e le riforme per l’immigrazione, vengono messe sullo stesso piano. Così come, nella maggior parte dei casi, l’opinione pubblica cattolica è molto più differenziata e tollerante di quanto venga compreso abitualmente.

Se da qualche parte rimane un atteggiamento ossessivo verso il sesso è sicuramente nella cultura popolare non certo nella Chiesa. Durante il primo anno del suo papato, Benedetto XVI ha usato la parola "Africa" quattro volte più di quanto abbia fatto con la parola "sesso". Tuttavia quest'ultima parola era riferita ad un unico documento che proibiva il sacerdozio ai gay ed è stato questo l'argomento che ha dominato sulla stampa. Il collegamento tra sesso e religione semplicemente vende bene e non è affatto giusto biasimare la chiesa per questo.

La Chiesa è ultra-gerarchica. Non proprio. Il Cattolicesimo ha una chiara catena di comando che lo rende abbastanza inusuale tra le religioni moderne (vi siete mai chiesti chi sia a capo del Giudaismo o dell’Islam?). Il Codice di Diritto Canonico assegna al Papa "un supremo, pieno, immediato e universale potere ordinario". Tale struttura gerarchica alimenta la percezione secondo cui il Cattolicesimo è gestito quasi esclusivamente dall’alto verso il basso. In pratica, invece, il Cattolicesimo funziona in modo informale e decentralizzato. La Curia Romana, ovvero la burocrazia amministrativa centrale della Chiesa, si serve di una forza lavoro di 2.700 dipendenti per gestire gli affari di più di 1,1 miliardi di cattolici. Se lo stesso rapporto di burocrati per cittadini fosse applicato al governo degli Stati Uniti circa 700 persone sarebbero sul libro-paga federale. In altre parole il Vaticano non ha gli strumenti per microgestire eccetto che nei più rari casi. Non si tratta di Wal-Mart dove la regolazione della temperatura di negozi lontani migliaia di chilometri è determinata da un computer nel quartier generale di Bentonville in Arkansas.

Il Cattolicesimo, inoltre, non è una gigantesca corporation. Gli assetti delle diocesi in giro per il mondo non appartengono al Papa ma ai vescovi e questo può dargli una considerevole autonomia in faccende amministrative. Nel 2001, per esempio, Roma ha ordinato all’Arcivescovo di Milwaukee di fermare la ristrutturazione della sua cattedrale perché non ne approvava il progetto. L’arcivescovo rispose che era lui quello che pagava gli appaltatori per cui Roma doveva farsi gli affari suoi.

Perfino all’interno del Vaticano gli uffici operano abbastanza indipendentemente uno dall’altro. Talvolta la mano sinistra di Roma davvero non sa, o non approva, cosa sta facendo la mano destra. Durante gli anni di Giovanni Paolo II, per esempio, lo stesso direttore di cerimonie del papa spesso ha proposto messe papali che ignoravano i cambiamenti suggeriti dall’ufficio di politica liturgica del Vaticano. E chiunque abbia prestato attenzione alle ondeggianti risposte da parte del Vaticano in merito alla crisi per gli abusi sessuali è verosimilmente giunto a un’impressione di incoerenza interna piuttosto che di stretto controllo dall’alto.

Probabilmente la migliore definizione che si può dare della Chiesa è riassunta dalla vecchia battuta secondo cui il Cattolicesimo è "una monarchia assoluta moderata da una disobbedienza selettiva". Dietro l’indipendenza locale e le cangianti risposte agli scandali c’è quasi sempre un impressionante grado di vivace dibattito. Fintantoche la Chiesa cresce in modo sempre più differenziato, questa tradizione di dialogo e discussione sarà sempre più critica per il suo futuro. Papi e pratiche cambieranno ma i fondamenti della fede molto probabilmente rimarranno forti e flessibili.

John L. Allen Jr. è senior correspondent per il National Catholic Reporter e senior analyst per la CNN.

Tratto da "Foreign Policy" (Novembre-Dicembre 2008)

Traduzione di Daniela Masciale e Fabrizia B. Maggi

Tuesday, November 11, 2008

Vittorio Messori un'apologetica dell' "et-et"

Ancora a proposito di Perché credo, propongo la recensione comparsa su Avvenire dello scorso 5 novembre 2008.

Vittorio Messori un'apologetica dell' "et-et", di Cesare Cavalleri
A lungo l’apologetica è stata intesa come una disputa con gli avversari della fede, una sorta di duello da concludersi con una stoccata vittoriosa. Basti ricordare che nel meraviglioso «Trionfo di san Tommaso» che Filippino Lippi affrescò tra il 1489 e il 1492 nella basilica di Santa Maria sopra Minerva, a Roma, su commissione del card. Oliviero Carafa, il santo, raffigurato in trono, non si limita ad additare l’errore atterrato davanti a lui (un vecchio corrucciato che ha in mano un cartiglio con la scritta «Sapientia vincit malitiam»), ma, per maggior sicurezza, gli mette sopra un piede. Tommaso, inoltre, è affiancato da quattro figure muliebri (la Grammatica, la Retorica, la Dialettica, la Filosofia) che non degnano di uno sguardo lo sconfitto.

La moderna apologetica non si propone più di umiliare l’avversario, di confutare l’errore prendendo di petto (o per il bavero) l’errante: come illustra il Catechismo della Chiesa cattolica, che raccoglie l’esperienza teologica e pastorale del Concilio Vaticano II, si tratta piuttosto di esporre «le buone ragioni della fede» argomentandole in positivo, passando, cioè, dalla «dialettica» alla «narrazione». Del resto, già Paolo VI, nella Evangelii nuntiandi (1975) aveva osservato che «l'uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri».

E dunque anche Vittorio Messori, principe degli apologisti contemporanei, ha scelto di narrare la propria testimonianza di fede, spiegando le perduranti conseguenze di quell’evento accaduto in un’afosa giornata torinese dell’agosto 1964, quando Gesù Cristo fece repentinamente irruzione nella sua vita, trasformando un ventitreenne cresciuto in rigorosa cultura laicista e passabilmente libertino, in un cristiano cattolico consapevole della responsabilità di partecipare agli altri la gioia della fede riscoperta. Ne è venuto un libro di ben 432 pagine, intitolato Perché credo – Una vita per rendere ragione della fede (Piemme, Casale Monferrato 2008, euro 20), in cui Messori ha accettato di rispondere alle domande di Andrea Tornielli, il quale, nell’Indice è indicato come Andrea Tornelli, e in effetti le sue domande sono utili «tornelli» che agevolano a Messori il passaggio di una solida e affascinante apologetica, attraverso il racconto in prima persona del suo itinerario esistenziale.

Sfilano dunque davanti agli occhi dei lettori i principali problemi del cristianesimo attuale, dalla riforma liturgica alla difesa e promozione della vita, dal necessario pluralismo dei cattolici in politica («minoritari ma non marginali»), ai rapporti tra scienza e fede, tra fede e filosofia. Su quest'ultimo punto Messori rilancia l'autocritica tracciata nella postfazione a un'ennesima ristampa di Ipotesi su Gesù: abbagliato dall'amatissimo Pascal che nel celeberrimo Mémorial afferma di aver incontrato «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Non dei filosofi e dei sapienti», anche Messori era stato tentato da un aut-aut tra fede e ragione, mentre la riflessione successiva l'aveva convinto che il cristianesimo è la religione dell'et-et: gli opposti sono compossibili, come si conviene alla religione del «perfetto Dio» e «perfetto uomo». E l'et-et è lo strumento metodologico preferito da Messori (forse fin troppo ricorrente nel libro), il quale giustamente condivide il motto di Jean Guitton, altro maestro riconosciuto: «Sono cattolico perché voglio tutto». Il capitolo finale è un appassionato atto di fede e di amore per la Chiesa, con Messori che arriva a commuoversi ripetendo a memoria la Pentecoste manzoniana, versi, a mio avviso, fra i più brutti della letteratura italiana.
Bellissimo, coinvolgentissimo libro, dunque, che conferma nella fede i credenti e tende una mano fraterna a chi non crede, incentrato com'è sull'incontro personale con Cristo, amato anche nel volto sindonico di cui Messori è strenuo e convincente apologeta.

Thursday, November 06, 2008

Il ritorno al cattolicesimo di un intellettuale di sinistra

La LINDAU di Torino propone Come sono ridiventato cristiano, di Jean-Claude Guillebaud (pagine 144, euro 14,00).

Jean-Claude Guillebaud, nato ad Algeri nel 1944, giornalista di «Le Monde», intellettuale laico di sinistra e già ateo convinto, oggi è direttore della casa editrice Seuil, ma Oltralpe è diventato un caso per la sua conversione.

Ora egli stesso ne racconta le tappe in queste pagine, una sorta di viaggio di ritorno al cristianesimo.

Insoddisfatto della narrazione solo «orizzontale» e cronachistica dei fatti cui era costretto dal suo mestiere di giornalista, Guillebaud sente la necessità di ritrovare una chiave di lettura più autentica per comprendere la dimensione «verticale» della storia e dell’uomo: «Per me era arrivato il tempo di deporre i bagagli. Il bisogno di leggere, di riflettere nel modo giusto, si sostituiva a quello di osservare e render conto».

La sua testimonianza è insieme personale e paradigmatica: attraverso l’analisi delle esperienze vissute in momenti e in luoghi cruciali del nostro tempo (dalla guerra del Vietnam al ’68, dalla crisi senza fine del Medio Oriente fino all’11 settembre) e il confronto con il pensiero di autori quali Girard, Morin, Ellul e Serres, Guillebaud riscopre la centralità e l’attualità del pensiero cristiano, il suo ruolo fondatore per la cultura dell’Occidente. «Messianismo giudaico, speranza cristiana, progresso dei Lumi: non riesco a impedirmi di scorgervi una filiazione che definisce l’intera storia occidentale. Significa che continuiamo a essere responsabili del divenire del mondo, che “un altro mondo è possibile”, come dicono oggi gli altermondialisti».

La sua «conversione» è dunque in primo luogo una scelta razionale, che nasce da una forte presa di coscienza di quelle che sono le radici della nostra civiltà e della terribile lezione che le ideologie del ’900 ci hanno consegnato.
In un’Europa «scristianizzata», stretta fra un fondamentalismo religioso che assume spesso i tratti del fanatismo islamico, un relativismo cinico e un edonismo disperato, il libro di Jean-Claude Guillebaud rappresenta un contributo prezioso alla riflessione sul rapporto fra fede e ragione, quel binomio che Benedetto XVI ha posto al centro del suo pensiero teologico.

«Non sono affatto sicuro di essere ridiventato un “buon cristiano”, ma credo profondamente che il messaggio evangelico conservi un valore fondatore per gli uomini del nostro tempo, compresi coloro che non credono in Dio. Ciò che mi attira verso di esso non è un sentimentalismo vago, è piuttosto la consapevolezza della sua fondamentale pertinenza. Confinarlo nel chiuso della propria intimità mi sembra assurdo.
La vera laicità non è la pavida rinuncia ai propri punti di vista, ma la loro libera espressione all’interno di un confronto forte e sereno.» (Dalla seconda di copertina).

Monday, November 03, 2008

La fede non è per cretini

Da Libero del 26 ottobre 2008.

Messori racconta: «La fede non è per cretini», intervista a Vittorio Messori di Caterina Maniaci

Raccontare di aver frequentato una scuola dura e seria, dunque di non essere uno sprovveduto o un ingenuo, di aver avuto una Rivelazione folgorante, di aver rinunciato a carriere brillanti, compresa quella di “libertino”, di aver speso la vita per rendere ragione della fede, di considerare la Chiesa (...) «la propria casa» e di aver trovato, nell'obbedienza e nel seguire l'ortodossia, la vera libertà.

Questo fa Vittorio Messori nel libro-intervista appena uscito, prenotato dai librai in un numero molto alto di copie e scritto insieme al vaticanista e saggista Andrea Tornielli. Il titolo del libro è esplicito: “Perché credo” (edizioni Piemme). Messori parla della sua fede in un mondo in cui tutto ciò è considerato politically incorrect, inopportuno, inaccettabile, fastidioso. Ma quest'uomo ha vissuto tutta la vita, e la sua carriera da scrittore, proprio nel segno della controtendenza, a partire dal folgorante inizio con “Ipotesi su Gesù”, a metà degli anni Settanta. Un successo editoriale senza precedenti - e non solo in Italia - tanto che ancora oggi questo libro vende venti-trentamila copie l'anno. Senza contare che Messori è l'unico giornalista della storia ad aver scritto un libro-intervista con un Papa, Giovanni Paolo II e un altro con colui che ne sarebbe diventato il successore, l'allora cardinale Ratzinger. E ora, in questo “Perché credo“, racconta come è avvenuto l'incontro che gli ha «di colpo, in modo imprevisto cambiato la testa». Nato in una famiglia emiliana anticlericale, cresciuto nella scuola razionalista torinese, allevato come pupillo dei grandi maestri del laicismo come Bobbio e Galante Garrone, nell'estate 1964, questo laureando di belle speranze, agnostico, indifferente alle questioni religiose, che passa il suo tempo tra studio, lavoro come telefonista notturno e la caccia a quante più donne possibile (ha un taccuino pieno zeppo di nomi e numeri di telefono) viene “sconvolto” da un fatto imprevedibile e imprevisto: incappa nel Cristo. E tutto, di colpo, cambia.

Perché proprio oggi ha deciso di parlare di sé in questo modo tanto aperto, della sua conversione, dopo tanti anni di - chiamiamola così - reticenza?

«Ho cercato, in tutta la mia vita e in tutti i miei libri, di dimostrare che la Speranza cristiana esiste, che è ragionevole crederlo e che il credente non è un credulo, né tanto meno un cretino. Oggi sono in tanti a sforzarsi di convincerci che non si può essere cristiani usando la ragione. Il cristiano, secondo loro, è uno che crede nei miti, nelle favole: insomma, è un cretino. Così dice, esplicitamente, uno di questi polemisti, naturalmente (come spesso capita) un ex-seminarista, stavolta piemontese, passato dalla teologia alla matematica. Perciò ho pensato fosse opportuno opporre a queste posizioni, per quanto conta, la mia esperienza».

In tutto questo c'entra anche la sua formazione scolastica e universitaria?

«Per molto tempo non ho voluto accettare questa sorta di “denudamento” intimo. In effetti, le scuole di Torino che mi hanno formato mi hanno insegnato a tenere per me quel privato che sarebbe la religione. Alla fine, se mi sono deciso, è per mostrare, con tutta umiltà e insieme convinzione, che si può essere credenti senza rinnegare la ragione. C'è una sorta di melma che sta montando, ormai da tempo, unanime nel volere convincerci che un uomo moderno, intelligente, non può accettare il Vangelo. Quindi ho accolto la proposta adesso, anche se con fatica e magari con un poco di sofferenza, avendo ormai alle spalle, spero, una certa credibilità professionale e quindi al sicuro da sospetti di creduloneria o tentazioni misticheggianti».

Tenendo presente che da anni, nei primi posti in classifica dei best-sellers, ci sono gli Augias, gli Scalfari, gli Odifreddi, i Dan Brown, insomma, tutti quelli che passano la vita a dimostrare che o si è uomo di cultura e di pensiero o sei credente, mai le due cose insieme…

«Appunto per questo mi sono deciso a “uscire allo scoperto” per mostrare, come ho fatto del resto in una ventina di libri precedenti, che non è così. Per tornare proprio a quell'“Ipotesi su Gesù” che ha dato il via a tutto, i pochi, anche clericali, che sapevano che lavoravo a questo libro, hanno cercato di dissuadermi. In una certa Chiesa post-conciliare era abbandonata l'apologetica. Che è, in realtà, il necessario tentativo di far partecipare la ragione alla fede. La mia, di apologetica, è sempre stata lontana da invettive, lamenti, polemiche basate sui sentimenti feriti o lagne del genere, ho cercato infatti di renderla solida, non abbandonando mai sia la ragione che i fatti concreti».

I suoi primi editori, i salesiani della Sei, erano certi che “Ipotesi su Gesù” sarebbe stato un flop editoriale E invece…

«Invece, quel libricino, stampato in meno di tremila copie, tenuto in un cassetto per più di un anno da quei religiosi perplessi, in pochissimo tempo ha superato il milione di copie in Italia e le trenta, quaranta traduzioni all'estero, dimostrando che c'era una domanda fortissima per la quale non esisteva un'offerta adeguata. E ancora oggi, a trentadue anni dall'uscita, continua ad essere ristampato».

Non c'è il rischio, ora, che lei venga trasformato in una sorta di “santino” , di icona del “buon cristiano”?

«Non credo proprio che sia possibile. In ogni caso, spero proprio di no ! Sono refrattario a tutto ciò che odora di “santa edificazione”, di buoni sentimenti e così via. Persuaso, come sono, che la teoria diventa più convincente se incarnata in una esistenza, mi sono deciso a raccontare la mia, ma tutta calata nella concretezza di uomo che si è dovuto arrendere al Vangelo, che ha cercato di sperimentarlo, e adesso ne trae il bilancio.

Mettendo però bene in chiaro il fatto che io non solo non colloco me stesso tra le ragioni per credere, ma dico: credete, se volete alla mia testimonianza, e non guardate troppo alla scarsa coerenza del testimone. Mi è stato dato di capire, di colpo, dov'è la Verità, cerco di presentarla, ma io stesso per primo molto spesso non ce la faccio a viverla. Indico un ideale di cui sono convinto sino in fondo, ma confesso che io pure ne sono spesso lontano».

Ci spiega, se mai è possibile, quel momento che ha coinciso con la sua conversione?

«Un'esperienza mistica è per definizione ineffabile e quindi non descrivibile. In ogni caso: così come, purtroppo, non sono mai stato, anche dopo quell'evento, un cristiano esemplare, così non sono mai stato un temperamento mistico. Anzi. Sono un emiliano terragno. Mi piacciono le donne, specialmente quelle prosperose, mi piace il cibo succulento, mi piace la libertà di dire e fare, mi piacerebbe insomma la vita con regole che io stesso mi pongo. Se seguissi la mia natura istintiva, sarei non un buon cristiano ma un buon pagano. In ogni caso sono agli antipodi della tipologia del mistico e dell'asceta».

E in quell'estate del '64, cosa è successo?

«Per un paio di mesi, in quella lontana e torrida estate del '64, sono stato “immerso” in una esperienza mistica che non avrei mai immaginato, che non avevo conosciuto prima né ho mai più conosciuto dopo. Ma quelle poche settimane sono bastate per sempre. È stato come cadere in un “buco” di luce: ne sono riemerso con la testa completamente cambiata. Con la chiarezza di aver visto la Verità, con tutta la sua forza ed evidenza. Tanto che oggi ( e lo dico con umiltà, anzi un po' spaventato io stesso) se mi chiedessero di abiurare la fede puntandomi una pistola alla tempia, non potrei farlo. Non per eroismo, non per desiderio di martirio, ma semplicemente perché sono inchiodato dall'evidenza che, come racconto in questo mio ultimo libro “Perché credo”, mi è stata mostrata senza che lo aspettassi o che lo meritassi».

Wednesday, October 01, 2008

L’OPUS DEI compie ottant’anni: se la conosci, non la eviti

Riporto l’articolo di Vittorio Messori, E l’Opus Dei ringrazia Dan Brown, pubblicato sul Corriere della sera del 18 settembre.
Per quanto mi riguarda, ho conosciuto l’Opus Dei proprio grazie ad un libro, ma non si tratta de Il Codice da Vinci di Dan Brown, bensì della splendida indagine che lo stesso Vittorio Messori aveva dedicato alla creatura di san Josemaria Escrivà nel 1994 (a lato la copertina).
Lessi quel libro nel 2007 e dal settembre di quell’anno frequento i ritiri mensili dell’Opera. Da allora, come sospettavo, del monaco Silas non ho visto neanche l’ombra. Ho trovato invece gente normalissima e seria. Tra laici e sacerdoti, ho conosciuto solo cattolici in perfetta sintonia col Magistero di Santa Romana Chiesa.

E l'Opus Dei ringrazia Dan Brown
Gli ordini, le congregazioni, i movimenti religiosi sono nati lentamente, talvolta faticosamente, partendo da intuizioni passate attraverso vicende complesse. Non così per l’Opus Dei, della cui nascita si può indicare addirittura l’ora, visto che festeggerà gli ottant’anni tra un paio di giorni, a mezzogiorno. In effetti, questo quanto avvenne, secondo una pubblicazione ufficiale: «Il 2 ottobre 1928, festa degli Angeli Custodi, don Josemaría Escrivà de Balaguer partecipava a un ritiro spirituale a Madrid. Era nella sua stanza mentre stava riordinando una serie di appunti, quando successe Qualcosa, un’ispirazione divina irruppe nella sua anima. Vide l’Opus Dei. Fu un momento di grazia, come raccontò: “Ricevetti l’illuminazione su tutta l’Opera, mentre leggevo quelle carte. Commosso, mi inginocchiai, resi grazie al Signore, e ricordo il suono delle campane del mezzogiorno della parrocchia di Nostra Signora degli Angeli”. “Vidi” : è questo il termine che sempre usò per descrivere quel momento»
E’ da questo inizio carismatico che trae origine, tra l’altro, il nome, che suscitò resistenze anche nella Chiesa, dove molti lo consideravano segno di megalomania. Mentre voleva, al contrario, essere testimonianza di umiltà. Opus Dei, “Opera di Dio“ in quanto pensata, ispirata, voluta da Lui stesso, progetto celeste che fu affidato non a chi si fosse segnalato per meriti e per santità ma a un pretino di 26 anni che stava ancora completando la formazione. Non caso, don Josemarìa ripeté sempre di essere «un fondatore senza fondamento», di non avere avuto alcuna intenzione di creare una simile opera, di non immaginarla neppure, ma di esservi stato costretto da un comando divino. Da qui, peraltro, anche la convinzione che, non nascendo da un progetto umano, l’istituzione non avrà fine, se non al ritorno del Cristo. Una convinzione che viene giustificata anche dall’obiettivo spirituale: la santificazione attraverso il lavoro ordinario. E poiché, ripeteva il sacerdote aragonese, sempre gli uomini lavoreranno, sempre ci sarà bisogno di chi li aiuti a dare un significato soprannaturale alla fatica quotidiana.
Come se la passa la mitica Obra a ottant’anni esatti dall’enigmatico inizio? Assai bene, almeno a viste umane. Il «fondatore» (le virgolette, come abbiamo visto, sono d’obbligo) è stato iscritto nell’elenco dei santi. Cosa che, nella prospettiva di fede, è decisiva: nessuno nella Chiesa, può più discutere l’autenticità del carisma di san de Balaguer; nessuno –se non sfidando la Chiesa stessa– può mettere in dubbio che l’istituzione sia benemerita per la cattolicità intera. Di più : quasi per ribadire la fiducia, è in corso, con buone prospettive, il processo di beatificazione del primo successore di Escrivà, don Alvaro del Portillo.
Ma quest’anno, alla ricorrenza degli otto decenni da quel mattino madrileno, si è aggiunto un’altro anniversario: un quarto di secolo dell’erezione dell’Opus Dei a prima (e sinora unica) Prelatura Personale. Una sorta, cioè, di diocesi senza un territorio definito ma vasto quanto il mondo intero e “popolato“ dai membri dell’istituzione che hanno, così, una sorta di doppia cittadinanza: quella della diocesi di residenza e quella dell’Opera, per quanto riguarda la formazione spirituale. Un riconoscimento decisivo, anche questo, per ottenere il quale il «fondatore» lottò per tutta la vita.
Grazie non solo alla benevolenza di due papi particolarmente amici come gli ultimi due ma , soprattutto, grazie all’impegno degli associati (sacerdoti, numerari, soprannumerari, aggregati: i laici sono il 98 per cento) l’Opus Dei non ha conosciuto né lo sbandamento teologico né l’emorragia postconciliare di tante altre realtà ecclesiali. Non solo non ha subito l’uscita di un numero significativo di membri, ma ne ha aumentato il numero, con il suo ritmo lento,silenzioso, ma costante: si è ormai ad 85.000, in tutti i continenti, divisi in modo quasi eguale tra uomini e donne. La caduta del comunismo non ha significato, per la Chiesa in generale, la ripresa che molti si attendevano: decenni di ateismo di Stato hanno devastato popoli interi. Eppure, in questa situazione difficile, l’Opera è quella che ha forse raccolto maggior frutto, mettendo radici salde anche all’Est, Russia compresa.
Nell’attivo di bilancio c’è poi, paradossalmente, lo tsunami Codice da Vinci, libro e film. Entrambi prodotti spazzatura, nati dalla furbizia commerciale di un americano che, però, conosceva tanto bene l’Opus Dei - incrocio per lui di trame omicide - da mettere in campo un suo “monaco”, con tanto di tunica e cappuccio. Ignorando, o fingendo di ignorare, che nell’Opera non ci sono monaci e che l’idea di un numerario o un soprannumerario in saio (un Joaquìm Navarro Valls o un Ettore Bernabei, ad esempio) provoca tra i fedeli non sai se più ilarità o sconcerto. Sta di fatto che, pur senza arrivare al giovane che nei giorni scorsi ha accoltellato un prete dopo avere visto il film alla televisione, le fantasie di Dan Brown sembravano avere inflitto alla istituzione un irreparabile danno d’immagine. E’ successo il contrario, tanto che nelle facoltà americane di giornalismo si studia con ammirazione la strategia dell’Opus Dei: approfittare della vampata di interesse non per protestare o denunciare, bensì per lanciare una campagna mondiale di informazione che presentasse la vera creatura di san Josemarìa. Risultato: un aumento del prestigio per l’elegante understatement, ma anche un’impennata del numero dei membri. Insomma, quasi un «se la conosci, non la eviti». Come ha commentato un dirigente (sorridente, naturalmente, e con la cravatta “giusta“, com’è nello stile di viale Buozzi, ai Parioli, sede centrale dell’Opera): «I furbetti passano. I santi restano».

Oltre all’indagine a firma dello stesso Vittorio Messori, pubblicata per i tipi della Oscar Mondadori nel 2002, consiglio l’inchiesta del giornalista francese Patrice De Plunkett, pubblicata nel gennaio 2008 dalla casa editrice torinese Lindau.

Monday, September 29, 2008

Lo scopo ultimo del Maligno

L’esistenza del Male costituisce un mistero. Ancora più misterioso appare l’agire del Maligno. È probabile che lui non possa sottrarsi dal compiere il ruolo assegnatogli nel disegno divino, però mi domando a che pro egli si dimeni così tanto nel mondo se poi sa perfettamente come andrà a finire. Infatti, il tipo conosce molto bene le Scritture e sa come si concluderà la Storia.
Pensavo allora alla frase di Gesù in Luca 18. 8: “Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Forse dirò una sciocchezza, ma è possibile che l’obiettivo ultimo del Maligno consiste proprio nell’agire in modo che la risposta a quella domanda di Cristo sia un terribile e desolante “NO”.

Saturday, August 30, 2008

Sclerosi laterale amiotrofica. Voglia di vivere

Domani si conclude la promozione della casa editrice ARES. Ho pochi soldi da destinare all'acquisto di altri titoli, ma un ultimo giro nel sito ho voluto farlo lo stesso. Mi è caduto lo sguardo sulla presentazione de “L’inguaribile voglia di vivere”. La riporto di seguito. Una semplice proposta di riflessione.
«Da quattro anni sono malato di Sla... Nonostante sia costretto sulla sedia a rotelle, possa solo muovere due dita della mano destra, sia alimentato artificialmente... apprezzo sempre di più quanto sia bello vivere... con dignità e buona qualità di vita e sentirmi ancora utile, prima di tutto a me stesso, ma anche agli altri... Ho potuto costatare che, a livello politico e mediatico, chi vuole morire fa notizia, mentre non fa notizia chi - magari trovandosi in identiche o anche peggiori condizioni - viene volutamente trascurato. Ma queste delusioni non mi abbattono. Hanno invece rafforzato in me la voglia di lottare per tutti coloro che, riuscendo magari a muovere solo gli occhi, vorrebbero avere un computer come quello che aveva Welby per poter parlare. Parlare non di morte, ma di vita. Far sentire le ragionevoli ragioni di chi, nel rispetto di ogni situazione personale, ritiene tuttavia profondamente ingiusta ogni azione che miri attivamente a far morire il paziente. Non si può chiedere a nessuno di uccidere, di ucciderci. Una civiltà non si può costruire su un simile falso presupposto. Perché l'amore vero non uccide e non chiede di morire».

Dalla Prefazione di Mario Melazzini, primario oncologo, presidente dell'Aisla (Associazione italiana Sclerosi laterale amiotrofica)

Massimo Pandolfi, caporedattore del Resto del Carlino-Qn, ha raccolto, oltre alla testimonianza di Mario Melazzini, 8 storie di persone malate di Sla o con patologie simili. Racconti in presa diretta, indimenticabili, drammatici e al tempo stesso gioiosi: condannati agli occhi del mondo, Carlo, Cesare, Elena, Gian Piero, Luca, Maria Ausilia, Sebastiano e Patrizia insegnano nella malattia il valore della vita e l'amore per le cose più piccole che ci è dato di fare e condividere ogni giorno. Annota l'autore nella sua premessa: «I primi tempi, per semplificare agli amici che cosa stavo scrivendo, dicevo: "Racconto le storie degli anti-Welby". Mi sono pentito di avere usato questo termine, "anti", perché in realtà non è e non vuole essere contro nessuno questo libro. E' solo "pro", è solo a favore del bene più grande che i cieli abbiano donato agli uomini: la vita, la libertà » (pp. 176).

Monday, August 25, 2008

Il diavolo alle calcagna

Da una chiacchierata con un uomo attempato e di grande senso pratico:
“Al diavolo, sempre in agguato, restituisco le attenzioni”.
“Sarebbe a dire?”, gli chiedo.
“Bé, visto che ci tiene tanto a starmi alle calcagna, deve rimanermi appiccicato anche quando mi comunico, mi segno con l’acqua benedetta, mi inginocchio davanti al Santissimo, recito il Rosario, mi confesso...”

Non fa una grinza!

Wednesday, August 20, 2008

L'Eucarestia: pane al pane e vino al vino

Su segnalazione de Il Timone online, diffondo il testo dell’intervista a S.E. Mons. Raymond L. Burke, pubblicata sull’ultimo numero di Radici cristiane e riportata nel sito Lo Zuavo Pontificio alla data dell’11 agosto.
Le parole del cardinale sulle regole da seguire quando si amministra e si riceve la Santa Eucarestia sono molto chiarificatrici per tutti i cattolici.
È sempre un piacere constatare che la Chiesa - passatemi il gioco di parole - non ha timore di dire pane al pane e vino al vino.
Eccellenza, sembra che oggi prevalga una visione lassista nei riguardi della ricezione dell'Eucaristia. Perché? Crede poi che questo influenzi i fedeli nel modo di vivere come cattolici?
Una delle ragioni per cui credo che questo lassismo sia andato sviluppandosi è l'insufficiente enfasi nella devozione eucaristica: in modo speciale mediante il culto al Santissimo con le processioni; con le benedizioni del Santissimo; con tempi più lunghi per l'adorazione solenne e con la devozione delle Quaranta Ore.
Senza devozione al Santissimo Sacramento la gente perde rapidamente la fede eucaristica. Sappiamo che c'è una percentuale elevata di cattolici che non crede che sotto le specie eucaristiche ci siano il corpo e il sangue di Cristo. Sappiamo inoltre esserci un'allarmante percentuale di cattolici che non partecipano alla Messa domenicale.
Un altro aspetto è la perdita del senso di collegamento fra il sacramento della Eucaristia e quello della Penitenza. Forse nel passato c'è stata un'enfasi esagerata al punto che la gente credeva che ogni volta che si riceveva l'Eucaristia si doveva prima confessare anche se non avevano un peccato mortale. Ma ora la gente va regolarmente a comunicarsi e forse mai, o molto di rado, si confessa.
Si è perso il senso della nostra propria indegnità per accostarci al Sacramento e del bisogno di confessare i peccati e far penitenza al fine di ricevere degnamente la Sacra Eucaristia.
Si somma a questo il senso sviluppatosi a partire dalla sfera civile che consiste nel credere che ricevere l'Eucaristia sia un diritto. Cioè che come cattolici abbiamo il diritto di ricevere la Comunione.
È vero che una volta che siamo stati battezzati e abbiamo raggiunto l'uso della ragione, dovremmo essere preparati per ricevere la Sacra Comunione e, se siamo ben disposti, dobbiamo riceverla. Ma d'altra parte noi non abbiamo mai un diritto di ricevere l'Eucaristia.
Chi può rivendicare un diritto a ricevere il Corpo di Cristo? Tutto è un atto senza misure dell'amore di Dio. Nostro Signore si rende Egli stesso disponibile nel suo Corpo e nel suo Sangue, ma non possiamo mai dire di avere diritto a riceverLo nella Santa Comunione. Ogni volta che ci accostiamo a Lui, dobbiamo farlo con un senso profondo della nostra indegnità.
Questi sarebbero alcuni degli elementi che spiegano l'atteggiamento lassista verso l'Eucaristia in genere. Lo vediamo anche nel modo con cui alcune persone vestono per ricevere la Sacra Comunione. Per esempio, vediamo gente che si avvicina alla Comunione senza unire le mani e persino a volte parlottando fra di loro. Alcuni perfino nel momento di ricevere l'Ostia, non dimostrano un'adeguata riverenza.
Tutto ciò è indicazione del bisogno di una nuova evangelizzazione nei riguardi della fede e della pratica eucaristica.

Ci sono leggi della Chiesa per impedire condotte inadeguate da parte dei fedeli a beneficio della comunità. Potrebbe commentarle e spiegarci fino a che punto la Chiesa e la Gerarchia hanno un obbligo di intervenire allo scopo di chiarire e correggere.
Nei riguardi dell'Eucaristia, per esempio, ci sono due canoni in particolare che hanno a che fare con la degna ricezione del Sacramento. Essi hanno come scopo due beni.
Un bene è quello della persona stessa, perché ricevere indegnamente il Corpo e il Sangue di Cristo è un sacrilegio. Se lo si fa deliberatamente in peccato mortale, è un sacrilegio. Quindi per il bene della persona stessa, la Chiesa deve istruirci dicendoci che ogni volta che riceviamo l'Eucaristia, dobbiamo prima esaminare la nostra coscienza.
Se abbiamo un peccato mortale sulla coscienza dobbiamo prima confessarci di quel peccato e ricevere l'assoluzione e, soltanto dopo, accostarci al sacramento eucaristico. Molte volte i nostri peccati gravi sono nascosti e noti solo a noi stessi e forse a pochi altri. In quel caso, dobbiamo essere noi a tenere sotto controllo la situazione ed essere in grado di disciplinarci in modo di non ricevere la Comunione.
Ma ci sono altri casi di persone che commettono peccati gravi deliberatamente e sono casi pubblici, come un ufficiale pubblico che con conoscenza e con sentimento sostiene azioni che sono contro la legge morale Divina ed Eterna.
Per esempio, pubblicamente appoggia l'aborto procurato, che comporta la soppressione di vite umane innocenti e senza difesa. Una persona che commette peccato in questa maniera è da ammonire pubblicamente in modo che non riceva la Comunione finché non abbia riformato la propria vita.
Se una persona che è stata ammonita persiste in un peccato mortale pubblico e si avvicina per ricevere la Comunione, allora il ministro dell'Eucaristia ha l'obbligo di rifiutargliela.
Perché? Innanzitutto per la salvezza della persona stessa, cioè per impedirle di compiere un sacrilegio. Ma anche per la salvezza di tutta la Chiesa, per impedire che ci sia scandalo in due maniere.
Primo, uno scandalo riguardante quale debba essere la nostra disposizione per ricevere la Santa Comunione. In altre parole, si deve evitare che la gente sia indotta a pensare che si può essere in stato di peccato mortale e accostarsi all'Eucaristia.
Secondo, ci potrebbe essere un'altra forma di scandalo, consistente nell'indurre la gente a pensare che l'atto pubblico che questa persona sta facendo, che finora tutti credono sia un peccato serio, non debba esserlo tanto se la Chiesa permette a quella persona di ricevere la Comunione.
Se abbiamo una figura pubblica che apertamente e deliberatamente sostiene i diritti abortisti e che riceve l'Eucaristia, che finirà per pensare la gente comune? Essa può essere portata a credere che è corretto in un certo qual modo sopprimere una vita innocente nel seno materno.
Ora la Chiesa ha queste discipline e sono molto antiche. In realtà risalgono ai tempi di san Paolo. Ma lungo la sua storia, la Chiesa ha sempre dovuto disciplinare la materia della ricezione della Comunione, che è il più sacro tesoro che essa possiede.
È il dono del Corpo e del Sangue di Cristo. Disciplinare questa pratica in modo che, primo, la gente non si avvicini né riceva la Santa Comunione indegnamente a costo del proprio danno morale e, secondo, che la fede eucaristica sia sempre rispettata e i fedeli non siano indotti in confusione, persino in errore, nei riguardi della sacralità del sacramento e della legge morale.

Eccellenza, ci sono casi in cui figure pubbliche vanno a Messa, ricevono i sacramenti e pubblicamente dicono di essere cattolici ma che, in pratica, sostengono legislazioni contrarie alla morale cattolica. Alcuni di loro, come scusante, sostengono di sentire in coscienza che non fanno niente di sbagliato e che comunque è una vicenda privata. Lei potrebbe spiegare perché questa posizione è erronea e come la formazione della propria coscienza non sia una questione soggettiva.
È vero che dobbiamo agire in modo conforme ai dettami della nostra coscienza, ma essa deve essere adeguatamente formata. La nostra coscienza deve conformarsi alla verità delle situazioni.
Essa non è una realtà soggettiva con cui giudico per me stesso cosa è bene e cosa è male. Anzi, essa è una realtà oggettiva per la quale devo conformare il mio pensiero alla verità.
A volte si sente parlare del primato della coscienza nel senso di dire "qualsiasi cosa io decida in coscienza, questo devo fare", e un tale assioma poi regola la vita. Certo, questo è vero se la coscienza è stata formata adeguatamente.
Amo ripetere quello che ha detto il cardinale George Pell, arcivescovo di Sydney: "anziché parlare di primato della coscienza dobbiamo parlare di primato della verità". Cioè, la verità della legge morale di Dio con la quale la nostra coscienza deve conformarsi. Fatto questo, allora sì che la coscienza ha quel primato che le viene attribuito.

Alcune persone dicono che è parte del diritto di ricevere la Comunione non sentirsi dire da nessuno, neppure da un vescovo, da un sacerdote o da un ministro dell'Eucaristia, cosa devono fare al riguardo. Cosa ne pensa?
Anzitutto bisogna dire che il Corpo e il Sangue di Cristo sono un dono dell'amore di Dio per noi. Il più grande dono, un dono che va oltre la nostra capacità di descriverlo. Dunque nessuno ha diritto a questo dono, esattamente come non abbiamo mai diritto a nessun dono che ci viene fatto.
Un dono è gratuito, causato dall'amore, e ciò è precisamente quanto Dio fa ogni volta che partecipiamo alla Messa e riceviamo la Sacra Eucaristia. Pertanto, dire che abbiamo diritto di ricevere la Comunione non è corretto.
Se vogliamo dire che, se siamo ben disposti, possiamo accostarci all'Eucaristia nella Messa che si sta celebrando, che abbiamo il diritto di ricevere la Comunione nel senso che abbiamo il diritto di avvicinarci per farlo, allora sì, questo è vero.
Orbene, nella ricezione della Sacra Eucaristia sono coinvolti Nostro Signore stesso, la persona che la deve ricevere, e infine il ministro del sacramento, che ha la responsabilità di assicurarsi che l'Eucaristia sia data solo alle persone degne di riceverla. Certamente la Chiesa ha il diritto di dire a chi persiste in un serio peccato pubblico, che non potrà ricevere la Comunione finché non sarà ben disposto per farlo.
Questo diritto del ministro di rifiutarsi a dare la Comunione a qualcuno che persiste nel peccato grave e pubblico è salvaguardato dal codice di Diritto Canonico sotto il canone 915. Altrimenti, se si vede negare il diritto del rifiuto a dare l'Eucaristia a un peccatore pubblico che si avvicini a riceverla dando scandalo a tutti, è il ministro che viene messo in situazione di violentare la propria coscienza al riguardo di una materia serissima. Ciò sarebbe semplicemente sbagliato.

Eccellenza, sembra che spesso la richiesta di adempire la legge canonica da parte di un vescovo, di un sacerdote e persino di un'autorità della Curia vaticana, è vista da alcuni come una crudeltà, come un atto prevaricatore nei riguardi dei fedeli. Non vedono questo come un atto di carità, finalizzato a evitare che qualcuno si accosti all'Eucaristia in modo indegno compromettendo la sua salvezza eterna. Per questa ragione la Chiesa ha le sue regole. Potrebbe commentare questo aspetto del ministero?
Sono d'accordo, certo. E il più grande atto di carità evitare che qualcuno faccia una cosa sacrilega. Prima si deve ammonire chi vuole farlo e poi si deve evitare di prendere parte a un sacrilegio.
È una situazione analoga a quella del genitore che deve opporsi a che il bambino giochi col fuoco. A chi verrebbe di dire che il genitore non è caritatevole perché lo richiama alla disciplina? Anzi, diremmo che questo è un genitore che veramente ama il figlio.
Lo stesso fa la Chiesa; nel suo amore Essa vieta di far cose gravemente offensive a Dio e gravemente dannose alle anime stesse.

Si dice a volte che quando un membro della Gerarchia ammonisce cattolici che sono figure pubbliche, stia usando la sua influenza per interferire nella politica. Come risponde a questa obiezione?
Il vescovo o l'autorità ecclesiastica, potrebbe essere anche il parroco, che interviene in queste situazioni, lo fa solo per il bene dell'anima della figura pubblica coinvolta. Non c'entra nulla la volontà di interferire nella vita pubblica, bensì nello stato spirituale del politico o dell'ufficiale pubblico che, se è cattolico, è tenuto a seguire la legge divina anche nella sfera pubblica. Se non lo fa, deve essere ammonito dal suo pastore.
Dunque, è semplicemente ridicolo e sbagliato cercare di zittire un pastore accusandolo di interferire in politica affinché non possa fare il bene all'anima di un membro del suo gregge.
Questo si desume anche da quanto ha denunciato il Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi, cioè il desiderio di alcune persone della nostra società di relegare completamente la fede religiosa nell'ambito privato, affermando che essa non ha niente a che fare con l'ambito pubblico. Questo è semplicemente sbagliato.
Dobbiamo dare testimonianza della nostra fede non soltanto nel privato dei nostri focolari ma anche nel nostro interagire pubblico con gli altri, per dare una forte testimonianza di Cristo. Quindi dobbiamo finirla con l'idea che in un certo qual modo la nostra fede è una materia completamente privata che non c'entra con la nostra vita pubblica.

Fonte: Radici Cristiane n. 37 - Ago/Set 2008