Tuesday, November 25, 2008

Con Socci a caccia delle orme (razionali) di Gesù

di Michele Brambilla, su Il Giornale di oggi.

È difficile, molto difficile terminare la lettura del nuovo libro di Antonio Socci (Indagine su Gesù, Rizzoli, in libreria da domani) senza venir assaliti perlomeno da un dubbio: e se davvero quell'uomo che ha spezzato la storia in due, avanti Cristo e dopo Cristo, fosse la suprema rivelazione di Dio al mondo? Bisogna essere prevenuti alla massima potenza, anzi bisogna essere fermamente determinati a non volere credere, per liquidare la questione con un'alzata di spalle e un sarcastico commento: tutte balle, tutte vecchie superstizioni, questioni che la ragione ha spazzato via.

Invece è proprio appellandosi alla ragione che Socci, con la sua lunga e dettagliata inchiesta, dimostra che il «caso Gesù» non può essere archiviato: probabilmente, non potrà mai essere archiviato. In fondo, perfino fermandoci a quel limitato frangente che è il caso editoriale italiano di questi ultimi anni, dobbiamo prendere atto che parlare di Gesù è in qualche modo inevitabile. Per anni sono stati ai vertici della classifica libri scritti su quel falegname ebreo vissuto duemila anni fa, e vissuto in modo tale da essere destinato - secondo le categorie degli storici - a un'assoluta ininfluenza.

Senza alcun potere economico, senza esercito, perfino senza chiesa (quella del suo tempo lo rifiutò), Gesù fu - visto con occhi umani - un fallito. Attorniato da quattro gatti che contavano meno di zero nella società del loro tempo (pescatori, vagabondi, nullafacenti) e per giunta tanto vigliacchi da rinnegare il maestro subito dopo la più ignominiosa delle morti (la crocifissione, supplizio riservato alle persone più spregevoli), Gesù - secondo "ragione" - non avrebbe dovuto lasciare alcuna traccia di sé. Invece, da quell'oscuro predicatore vissuto in una remota e insignificante provincia dell'impero è nato quel che sappiamo, e che ancora oggi possiamo vedere con i nostri occhi e toccare con le nostre mani.

Per tornare al piccolo caso editoriale cui facevamo cenno: sono anni, dicevamo, che in Italia spesso ai vertici della classifica ci sono libri su Gesù: scritti per affermare o per negare la sua divinità; ma comunque scritti, e letti da milioni da persone. Alla metà degli anni Settanta ci fu il boom mondiale di Ipotesi su Gesù di Vittorio Messori; in anni recenti, i successi dei libri «contro» di Odifreddi e di Augias; ora, quello di Socci, un credente. C'è insomma anche qui la prova dell'impossibilità di restare indifferenti di fronte a Gesù. Lo si adora o lo si nega: ma con lui si devono fare i conti.

Trova così conferma la celeberrima scommessa pascaliana: a chi diceva di non voler affatto prendere parte nella disputa pro o contro Gesù, il grande filosofo e scienziato francese del Seicento rispondeva: vi sbagliate, scommettere è inevitabile, siete incastrato anche voi; non fosse altro per il fatto che un sì o un no lo si pronuncia, prima ancora che con un'adesione razionale, con la vita. C'è insomma, in questo infinito, invincibile interesse per il Nazareno la conferma di un mistero che ha resistito ai secoli, anzi ai millenni; e una smentita clamorosa a tutta quella cultura del Novecento che riteneva ormai superata, dall'«uomo nuovo», la questione religiosa, e la questione-Gesù in particolare.

L'indagine di Socci è seria, approfondita, documentata; crediamo che pure chi arriverà a conclusioni diverse da quelle dell'autore non potrà comunque non definirla anche «onesta». Socci non nasconde di pensare e scrivere come un apologeta; e dell'apologetica cristiana rispetta lo stile tradizionale: dimostrazione divina; dimostrazione cristiana; dimostrazione cattolica. Dio, Cristo e la Chiesa: sono questi i tre capisaldi del cattolico credente.

È chiaro che se si nega il primo «tassello», Dio (e Dio ci perdoni di averlo definito un «tassello»), cade anche tutto il resto. Socci parte quindi con la questione-Dio: e lo fa in modo avvincente, incalzante, smontando il luogo comune oggi assai in voga (in realtà più in certa pubblicistica che fra scienziati) che vorrebbe far credere un'incompatibilità tra scienza e fede in un Creatore. Si parte dalla clamorosa conversione, avvenuta quattro anni fa, del filosofo Antony Flew, per decenni simbolo mondiale dell'ateismo scientifico e padrino degli attuali divulgatori dell'inesistenza di Dio come Richard Dawkins. Il cambiamento di Flew fece enorme impressione, perché non avvenne per una crisi di coscienza personale o per una storia privata. Fu, al contrario, il naturale sbocco della sua indagine sull'origine dell'universo e della vita: «La mia scoperta del Divino è stata un itinerario (pellegrinaggio) della ragione e non della fede».

Flew mandò in crisi l'ateismo scientifico anche e soprattutto perché la sua non fu la conversione a una religione (il che avrebbe necessariamente comportato un atteggiamento di fede, oltre che di ragione), bensì al puro e semplice deismo: alla convinzione, cioè, che l'esistenza dell'universo e della vita sono inspiegabili senza quella di un'entità superiore intelligente. È la stessa convinzione che avevano personaggi abusivamente arruolati, oggi, dagli atei militanti, come Voltaire («Geometri, non filosofi, hanno potuto rigettare le cause finali, ma i veri filosofi le ammettono») o Rousseau («A quali occhi non prevenuti l'ordine sensibile dell'universo non annuncia una suprema intelligenza?»).

Socci prosegue in questo capitolo introduttivo riportando le posizioni dei più grandi scienziati contemporanei, da Einstein a Hawking, dagli studiosi del Big Bang a quelli del Dna: tutti concordi nel riconoscere che la più ragionevole delle risposte di fronte al mistero dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo, così come di fronte allo stupore per la meravigliosa complessità anche del più minuscolo organismo vivente, è quella di ammettere un Creatore. Insomma, un qualcosa che chiamiamo Dio.

Ma se la scienza e la ragione - sempre più, contrariamente a quanto si vuol far credere - portano al riconoscimento dell'esistenza di un Dio, più fitto si fa l'enigma se cerchiamo di passare dall'esistenza all'essenza. Dio c'è. Ma chi è? L'uomo, da solo, non lo può capire. Per la tradizione giudaico-cristiana, Dio stesso ha scelto di rivelarsi entrando nella storia, prima scegliendosi un popolo come testimone, e poi (per i cristiani) addirittura facendosi uomo. È l'Incarnazione lo scandalo supremo, e Socci cerca di dimostrare, perlomeno, che non c'è contrasto tra la ragione e la fede in quell'avvenimento inaudito.

E qui si arriva al cuore di questa Indagine su Gesù. Gli argomenti, ma direi soprattutto i fatti elencati da Socci, sono tanti e così dettagliati che un sunto, qui, farebbe torto al libro. Lasciamo al lettore il gusto di scoprire, una dopo l'altra, pagine che appassionano. Sono pagine, appunto, su un personaggio che continua a dividere. C'è chi si batte per annunciarlo al mondo; e chi per ridurlo al rango di una leggenda. Il mistero è destinato a restare probabilmente alla fine dei tempi, perché per la fede occorre comunque, e sempre, uno scatto del cuore. Ma come diceva un grande accademico di Francia, il filosofo Jean Guitton, «chi crede, crede in un mistero; ma chi non crede, crede nell'assurdo».

Monday, November 24, 2008

San Paolo (Lutero) e la lezione sulla giustificazione

Riporto la catechesi su San Paolo di Sua Santità Benedetto XVI nell’Udienza generale in Piazza San Pietro dello scorso mercoledì 19 novembre.
Cari fratelli e sorelle,
nel cammino che stiamo compiendo sotto la guida di san Paolo, vogliamo ora soffermarci su un tema che sta al centro delle controversie del secolo della Riforma: la questione della giustificazione. Come diventa giusto l’uomo agli occhi di Dio? Quando Paolo incontrò il Risorto sulla strada di Damasco era un uomo realizzato: irreprensibile quanto alla giustizia derivante dalla Legge (cfr Fil 3,6), superava molti suoi coetanei nell’osservanza delle prescrizioni mosaiche ed era zelante nel sostenere le tradizioni dei padri (cfr Gal 1,14). L’illuminazione di Damasco gli cambiò radicalmente l'esistenza: cominciò a considerare tutti i meriti, acquisiti in una carriera religiosa integerrima, come “spazzatura” di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (cfr Fil 3,8). La Lettera ai Filippesi ci offre una toccante testimonianza del passaggio di Paolo da una giustizia fondata sulla Legge e acquisita con l'osservanza delle opere prescritte, ad una giustizia basata sulla fede in Cristo: egli aveva compreso che quanto fino ad allora gli era parso un guadagno in realtà di fronte a Dio era una perdita e aveva deciso perciò di scommettere tutta la sua esistenza su Gesù Cristo (cfr Fil 3,7). Il tesoro nascosto nel campo e la perla preziosa nel cui acquisto investire tutto il resto non erano più le opere della Legge, ma Gesù Cristo, il suo Signore.

Il rapporto tra Paolo e il Risorto diventò talmente profondo da indurlo a sostenere che Cristo non era più soltanto la sua vita ma il suo vivere, al punto che per poterlo raggiungere persino il morire diventava un guadagno (cfr Fil 1,21). Non che disprezzasse la vita, ma aveva compreso che per lui il vivere non aveva ormai altro scopo e non nutriva perciò altro desiderio che di raggiungere Cristo, come in una gara di atletica, per restare sempre con Lui: il Risorto era diventato l’inizio e il fine della sua esistenza, il motivo e la mèta della sua corsa. Soltanto la preoccupazione per la maturazione nella fede di coloro che aveva evangelizzato e la sollecitudine per tutte le Chiese da lui fondate (cfr 2 Cor 11,28) lo inducevano a rallentare la corsa verso il suo unico Signore, per attendere i discepoli affinché con lui potessero correre verso la mèta. Se nella precedente osservanza della Legge non aveva nulla da rimproverarsi dal punto di vista dell’integrità morale, una volta raggiunto da Cristo preferiva non pronunciare giudizi su se stesso (cfr 1 Cor 4,3-4), ma si limitava a proporsi di correre per conquistare Colui dal quale era stato conquistato (cfr Fil 3,12).

È proprio per questa personale esperienza del rapporto con Gesù Cristo che Paolo colloca ormai al centro del suo Vangelo un’irriducibile opposizione tra due percorsi alternativi verso la giustizia: uno costruito sulle opere della Legge, l’altro fondato sulla grazia della fede in Cristo. L’alternativa fra la giustizia per le opere della Legge e quella per la fede in Cristo diventa così uno dei motivi dominanti che attraversano le sue Lettere: “Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato per le opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù, per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno” (Gal 2,15-16). E ai cristiani di Roma ribadisce che “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù (Rm 3,23-24). E aggiunge “Noi riteniamo, infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge” (Ibid 28). Lutero a questo punto tradusse: “giustificato per la sola fede”. Ritornerò su questo punto alla fine della catechesi. Prima dobbiamo chiarire che cosa è questa “Legge” dalla quale siamo liberati e che cosa sono quelle “opere della Legge” che non giustificano. Già nella comunità di Corinto esisteva l’opinione che sarebbe poi ritornata sistematicamente nella storia; l’opinione consisteva nel ritenere che si trattasse della legge morale e che la libertà cristiana consistesse quindi nella liberazione dall’etica. Così a Corinto circolava la parola “πάντα μοι έξεστιν” (tutto mi è lecito). E’ ovvio che questa interpretazione è sbagliata: la libertà cristiana non è libertinismo, la liberazione della quale parla san Paolo non è liberazione dal fare il bene.

Ma che cosa significa dunque la Legge dalla quale siamo liberati e che non salva? Per san Paolo, come per tutti i suoi contemporanei, la parola Legge significava la Torah nella sua totalità, cioè i cinque libri di Mosè. La Torah implicava, nell’interpretazione farisaica, quella studiata e fatta propria da Paolo, un complesso di comportamenti che andava dal nucleo etico fino alle osservanze rituali e cultuali che determinavano sostanzialmente l’identità dell’uomo giusto. Particolarmente la circoncisione, le osservanze circa il cibo puro e generalmente la purezza rituale, le regole circa l’osservanza del sabato, ecc. Comportamenti che appaiono spesso anche nei dibattiti tra Gesù e i suoi contemporanei. Tutte queste osservanze che esprimono una identità sociale, culturale e religiosa erano divenute singolarmente importanti al tempo della cultura ellenistica, cominciando dal III secolo a.C. Questa cultura, che era diventata la cultura universale di allora, ed era una cultura apparentemente razionale, una cultura politeista, apparentemente tollerante, costituiva una pressione forte verso l’uniformità culturale e minacciava così l’identità di Israele, che era politicamente costretto ad entrare in questa identità comune della cultura ellenistica con conseguente perdita della propria identità, perdita quindi anche della preziosa eredità della fede dei Padri, della fede nell’unico Dio e nelle promesse di Dio.

Contro questa pressione culturale, che minacciava non solo l’identità israelitica, ma anche la fede nell’unico Dio e nelle sue promesse, era necessario creare un muro di distinzione, uno scudo di difesa a protezione della preziosa eredità della fede; tale muro consisteva proprio nelle osservanze e prescrizioni giudaiche. Paolo, che aveva appreso tali osservanze proprio nella loro funzione difensiva del dono di Dio, dell’eredità della fede in un unico Dio, ha visto minacciata questa identità dalla libertà dei cristiani: per questo li perseguitava. Al momento del suo incontro con il Risorto capì che con la risurrezione di Cristo la situazione era cambiata radicalmente. Con Cristo, il Dio di Israele, l’unico vero Dio, diventava il Dio di tutti i popoli. Il muro – così dice nella Lettera agli Efesini – tra Israele e i pagani non era più necessario: è Cristo che ci protegge contro il politesimo e tutte le sue deviazioni; è Cristo che ci unisce con e nell’unico Dio; è Cristo che garantisce la nostra vera identità nella diversità delle culture. Il muro non è più necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cristo, ed è lui che ci fa giusti. Essere giusto vuol semplicemente dire essere con Cristo e in Cristo. E questo basta. Non sono più necessarie altre osservanze. Perciò l’espressione “sola fide” di Lutero è vera, se non si oppone la fede alla carità, all’amore. La fede è guardare Cristo, affidarsi a Cristo, attaccarsi a Cristo, conformarsi a Cristo, alla sua vita. E la forma, la vita di Cristo è l’amore; quindi credere è conformarsi a Cristo ed entrare nel suo amore. Perciò san Paolo nella Lettera ai Galati, nella quale soprattutto ha sviluppato la sua dottrina sulla giustificazione, parla della fede che opera per mezzo della carità (cfr Gal 5,14).

Paolo sa che nel duplice amore di Dio e del prossimo è presente e adempiuta tutta la Legge. Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore. Vedremo la stessa cosa nel Vangelo della prossima domenica, solennità di Cristo Re. È il Vangelo del giudice il cui unico criterio è l'amore. Ciò che domanda è solo questo: Tu mi hai visitato quando ero ammalato? Quando ero in carcere? Tu mi hai dato da mangiare quando ho avuto fame, tu mi hai vestito quando ero nudo? E così la giustizia si decide nella carità. Così, al termine di questo Vangelo, possiamo quasi dire: solo amore, sola carità. Ma non c'è contraddizione tra questo Vangelo e San Paolo. È la medesima visione, quella secondo cui la comunione con Cristo, la fede in Cristo crea la carità. E la carità è realizzazione della comunione con Cristo. Così, essendo uniti a Lui siamo giusti e in nessun altro modo.

Alla fine, possiamo solo pregare il Signore che ci aiuti a credere. Credere realmente; credere diventa così vita, unità con Cristo, trasformazione della nostra vita. E così, trasformati dal suo amore, dall’amore di Dio e del prossimo, possiamo essere realmente giusti agli occhi di Dio.

Wednesday, November 12, 2008

5 cliché da sfatare per ripensare il cattolicesimo

Segnalo un interessante articolo di John Allen Jr., pubblicato da Foreign Policy e riproposto in traduzione italiana da L'Occidentale.
Visto da fuori, il Vaticano sembra resistente al cambiamento e sordo agli scandali. Ma, in verità, la più antica istituzione religiosa del mondo somiglia poco alla chiesa misteriosa immaginata dai teorici della cospirazione. Oggi il Cattolicesimo attrae milioni di nuovi fedeli che abbracciano come credo le tradizioni clericali del dibattito e dell'indipendenza. Sono almeno cinque i cliché che la Chiesa Cattolica sta capovolgendo.

La Chiesa Cattolica si sta contraendo. No. La scarsezza di sacerdoti a livello mondiale, i banchi vuoti in quelle che erano un tempo le roccaforti cattoliche, o la grande quantità di scandali per abusi sessuali, potrebbero far pensare che la Chiesa Cattolica moderna sia in declino. Ma il cattolicesimo sta vivendo il suo più grande periodo di crescita durante la sua Storia millenaria. La popolazione cattolica mondiale è aumentata da 266 milioni nel 1900 a 1,1 miliardi nel 2000, con un incremento del 314%. In confronto, nel secolo scorso, la popolazione mondiale è aumentata del 263%. La chiesa non ha solo dato una mano al baby boom, ha attratto con successo nuovi convertiti.

E' vero, il Cattolicesimo sta diminuendo in Europa, e perderebbe terreno anche negli Stati Uniti se non fosse per gli immigrati, soprattutto gli ispanici. Secondo un recente studio del Foro ecclesiastico il 10% degli americani sono ex-cattolici. Questo declino però è stato più che bilanciato dalla crescita in Africa, Asia e America Latina. Solo nell’Africa sub-sahariana, il numero di cattolici è aumentato di uno sbalorditivo 6.700% nel secolo scorso, da 1.9 milioni a 130 milioni di persone. La Repubblica Democratica del Congo oggi ha lo stesso numero di cattolici di Austria e Germania messe assieme. L’India ha più cattolici del Canada combinato con l’Irlanda.

Quello a cui stiamo assistendo non è una contrazione del Cattolicesimo ma, piuttosto, lo spostamento del suo centro di gravità demografico. Quella che un tempo era una religione ampiamente omogenea, concentrata tra Europa e Nord America, è oggi una fede davvero universale. Nel 1900, solo il 25% dei cattolici viveva nei paesi in via di sviluppo, oggi siamo al 66% e la cifra sta salendo. Tra qualche decina di anni, i nuovi centri del pensiero teologico non saranno più Parigi e Milano, ma Nairobi e Manila.

Oggi però i tassi di fertilità nei paesi in via di sviluppo stanno precipitando, perciò è improbabile che il Cattolicesimo possa mantenere gli stessi tassi di crescita spettacolari durante i prossimi cento anni. In parti dell’America latina, Africa, Asia, il Cattolicesimo sta per essere sorpassato dai suoi concorrenti, specialmente dalle crescenti chiese evangeliche e pentecostali. Tuttavia, la sfida più grande per la Chiesa Cattolica non è quella di far fronte al declino ma quella di gestire bene la transizione verso una fede multiculturale.

Il Cattolicesimo è di destra. Solo in parte. Dipende dalla definizione di “destra” e, in relazione a questo, della Chiesa di cui parliamo. E’ vero che le strutture istituzionali del Cattolicesimo sono istintivamente conservatrici. Nel XIX secolo Papa Gregorio XVI effettivamente bloccò la costruzione delle ferrovie e della illuminazione a gas nello Stato pontificio per timore di quello a cui avrebbero potuto portare queste innovazioni "innaturali". E’ anche vero che su questioni controverse come l’aborto, i matrimoni omosessuali e la ricerca sulla cellule staminali embrionali, le posizioni ufficiali del cattolicesimo si collocano solidamente con la destra culturale.

Tuttavia la Chiesa è sempre stata qualcosa di più della sua gerarchia e la sua posizione originaria è tutt’altro che uniforme. Gli Stati Uniti sono un esempio da questo punto di vista. I cattolici americani erano storicamente democratici e, nonostante gli sforzi aggressivi compiuti dai conservatori nell’era reganiana per corteggiarli, esiste tuttora una parte considerevole dell’elettorato che è cattolico e liberale. La prova è che la maggior parte dei sondaggi d’opinione fatti durante la corsa alle elezioni presidenziali ha mostrato che i cattolici sono equamente divisi tra Barack Obama e John McCain.

Persino le posizioni ufficiali della Chiesa cattolica difficilmente riuscirebbero a ricevere un chiaro via libera dai conservatori comuni. Papa Giovanni Paolo II è stato il principale critico di entrambe le guerre del Golfo. Papa Benedetto XVI ha denunciato la "falsa promessa" del capitalismo e del libero mercato in stile americano ma si è anche distinto come eloquente ambientalista. Nel frattempo la Chiesa Cattolica si è dichiarata contraria alla pena di morte, al commercio delle armi, si è schierata con le Nazioni Unite e a favore all’immigrazione, posizioni fortemente disapprovate da molti esponenti di destra.

I vescovi e i teologi insistono che, data la complessa gamma della dottrina sociale cattolica, la Chiesa non è compatibile con nessuna alleanza laica. John Carr, un veterano consulente per la Conferenza Statunitense dei Vescovi Cattolici, definisce il Cattolicesimo "politicamente senza tetto". Nelle nove elezioni presidenziali tra il 1972 e il 2004, la maggioranza dei cattolici statunitensi ha votato per un Repubblicano cinque volte e per un Democratico quattro. Che sia una questione di insegnamento ufficiale o di opinione di massa, la Chiesa Cattolica difficilmente rappresenta il Partito Repubblicano americano raccolto in preghiera.

La Chiesa è ricca sfondata. Non proprio, sebbene non sia certamente povera. Chiunque sia mai stato a piazza San Pietro a Roma e abbia visto un principe della chiesa (un modo colloquiale per indicare i cardinali cattolici) uscire da una Mercedes nera targata Vaticano potrebbe digerire poco facilmente, e comprensibilmente, questa scena. Tuttavia anche sulla ricchezza della Chiesa Cattolica di solito si esagera. Per esempio si dice che il Vaticano navighi nell’oro ma il suo budget annuo è inferiore a 400 milioni di dollari. In confronto quello dell’Università di Harvard è di 3 miliardi di dollari. Il portfolio del Vaticano in titoli, obbligazioni e proprietà immobiliari, arriva all’incirca a 1 miliardo di dollari. Se vogliamo fare un paragone leggermente stravagante, Forbes ha stimato che Oprah Winfrey, da sola, vale 2.5 miliardi di dollari. I grandiosi tesori artistici del Vaticano, per esempio "La Pietà" di Michelangelo, sono letteralmente senza prezzo; sono elencati nei libri del Vaticano a un valore di 1 euro ciascuno perché non potranno mai essere venduti o prestati.

Nel mondo, le diocesi e le parrocchie talvolta sono grandi proprietari terrieri, e la chiesa gestisce una vasta rete di scuole, ospedali e centri di servizi sociali. Tale infrastruttura può generare dei numeri che possono impressionare. Nel 2001 il reddito annuo dei programmi cattolici negli Stati Uniti giunse a 102 miliardi di dollari. Tuttavia la maggior parte di questi programmi o pareggiano appena o addirittura vanno in rosso, in parte perché spesso vengono realizzati per popolazioni dal basso reddito e per le minoranze. Fuori dall'Europa e dagli Stati Uniti la maggior parte delle diocesi e delle parrocchie tirano avanti con budget da quattro soldi, per non parlare dei missionari che spesso vivono in aree remote in disperata povertà.

I cattolici "dal papa in giù" suggeriscono periodicamente che la Chiesa adotti una maggiore "semplicità" ed è giusto aspettarsi che qualsiasi organizzazione che chiede giustizia per i poveri poi metta in pratica ciò che predica. Ma credere che ci siano borsoni di denaro ammassati in qualche segreta del Vaticano è comunque una immagine ingannevole. Semplicemente non ce ne sono.

La Chiesa non cambia mai. Falso. La realtà non è che la Chiesa non cambia mai, se mai non ammette di essere cambiata. I cattolici più avveduti sanno che quando qualcuno che conta inizia una frase con "Come la chiesa ha sempre insegnato..." qualche idea o pratica longeva sta per essere capovolta. Per esempio la Chiesa una volta considerava prestare il denaro per interesse un peccato di usura, qualcosa che oggi non è più un dogma. Oppure pensiamo a quando i papi erano anche degli amministratori civili che mandavano a morte i criminali; i visitatori a Roma possono farsi un giro al Museo di Criminologia e vedere una ghigliottina papale perfettamente conservata, un regalo da parte di Napoleone. Oggi, sicuramente, la Chiesa Cattolica è un leader nelle campagne mondiali per l'abolizione della pena di morte. Più recentemente, Papa Benedetto XVI ha annullato la credenza nel limbo, un'anticamera ad hoc dell'aldilà per bambini non battezzati.

Gli apologeti potrebbero argomentare che, in questi casi, ciò che è cambiato sono le circostanze storiche e non i principi essenziali. In ogni caso qualcosa di importante ha aperto una strada. Di solito una pressione che monta dalla base alla fine scoppia e determina una svolta, come è accaduto durante il Concilio Vaticano II a metà degli anni Sessanta. Improvvisamente la Messa venne celebrata in "volgare" piuttosto che in latino, il Cattolicesimo passò da posizioni critiche nei confronti della libertà religiosa a mostrarsi come un modello dei diritti umani, e gli "eretici" protestanti divennero "fratelli separati". Questo non significa che tutto può essere capovolto. Un futuro papa non insegnerà mai che Gesù non è mai esistito, che non era il Figlio di Dio, o che il pane e il vino usati nell’Eucarestia non diventano veramente il corpo e il sangue di Cristo. La storia cattolica è sempre una miscela di continuità e di cambiamento. La parte difficile è anticipare cosa potrebbe cambiare e quando.

Il Vaticano è avvolto di segretezza. Non proprio. In realtà il Vaticano è molto meno riservato della maggior parte delle altre istituzioni che hanno una portata globale, il governo degli Stati Uniti, per esempio, o la Coca Cola. Il Vaticano non raccoglie immagini da satelliti spia e non è ossessionato dalla protezione di informazioni che riguardino la progettazione di armi ad alta tecnologia. Non ha segreti commerciali, nessun dipartimento di ricerca e sviluppo, e non ha piani di vendita da tenere nascosti da occhi indiscreti. Il risultato è che gli affari del Vaticano in realtà si svolgono in modo molto più trasparente di quanto si possa immaginare dall’esterno.

E nemmeno quando ci prova il Vaticano è troppo capace di mantenere i propri segreti. E’ una burocrazia, dopotutto, piena di gente dogmatica e fortemente determinata. Prima o poi la maggior parte delle cose salta fuori (c’è un famoso detto secondo cui "Roma è una città in cui tutto è un mistero e niente è un segreto"). Nell’estate del 2007 Papa Benedetto XVI promulgò una decisione attesa da molto tempo con cui veniva dato ai preti il permesso di celebrare l'antica messa in latino. Ma nel momento in cui venne ufficializzata, comunque, la storia era già divenuta meno rilevante visto che il contenuto della decisione era trapelato sulla stampa mesi prima e perciò era stato già abbondantemente sottoposto a uno scrutinio esaustivo.

Il problema con il Vaticano non è la sua segretezza quanto la sua assoluta singolarità. E’ diverso da qualsiasi altra istituzione con cui si possa entrare in contatto, con la sua storia, la sua lingua e i suoi ritmi. Se non si conosce la differenza tra il punto di vista dei Gesuiti e quello dei Domenicani sul tema della Grazia nel XVI secolo, per esempio, o tra "Cotta" e "Alba", dentro il Vaticano ci si troverà spesso dinanzi a conversazioni estremamente difficili da capire. O se non si sa che il sottosegretario nella maggior parte degli uffici è la persona che svolge il vero lavoro può risultare difficile seguire le intricate faccende della Chiesa. Il trucco per decifrare il Vaticano è conoscere a fondo la sua cultura. Farlo significa sollevare facilmente il velo di segretezza che lo circonda.

Il Cattolicesimo è ossessionato dal sesso. No, siete voi ad esserlo. Prima della rivoluzione sessuale del 1960 la maggior parte delle persone avrebbe considerato molto strana l’idea del Cattolicesimo come qualcosa di pudico. L’antico rimprovero verso i cattolici era quello che fossero decisamente propensi ai piaceri della carne, specialmente del sesso e dell’alcool, a differenza dei più astemi Protestanti. Come ha scritto il poeta Hilaire Belloc "laddove splende il sole cattolico ci sono sempre risa e buon vino rosso". Quando i critici di oggi accusano il Cattolicesimo per le sue posizioni bigotte uno immagina i veri puritani che, rigirandosi nella tomba, disprezzavano la Chiesa di Roma e il suo lassismo morale.

Dal 1960, comunque, il Cattolicesimo è stato coinvolto in una controversia pubblica dopo l’altra sulle faccende sessali come i diritti dei gay, le questioni di genere, la famiglia, l’aborto, la contraccezione, l’inseminazione artificiale e altri punti scottanti dell’etica sessuale. Gli insegnamenti cattolici che un tempo etichettavano la persona media come moderata e perfino permissiva, ad esempio incoraggiando ad avere una famiglia numerosa, oggi sembrano positivamente antiquati alla maggior parte degli osservatori.

Il fatto è che gli insegnamenti sul sesso e sul genere sono contestati perfino all’interno della Chiesa stessa. Alcuni sondaggi dimostrano che una solida maggioranza di Cattolici, perlomeno negli Stati Uniti, non è d’accordo con le posizioni ufficiali della Chiesa su questioni come la contraccezione, la fertilizzazione in vitro e sul matrimonio per i sacerdoti. Maggioranze più ristrette vorrebbero l’ordinamento delle donne al sacerdozio e si oppongono senza mezzi termini all'aborto. E quando i Cattolici americani puntano su un candidato sia le faccende della vita privata sia le questioni di giustizia sociale, come l’assistenza per le famiglie in difficoltà e le riforme per l’immigrazione, vengono messe sullo stesso piano. Così come, nella maggior parte dei casi, l’opinione pubblica cattolica è molto più differenziata e tollerante di quanto venga compreso abitualmente.

Se da qualche parte rimane un atteggiamento ossessivo verso il sesso è sicuramente nella cultura popolare non certo nella Chiesa. Durante il primo anno del suo papato, Benedetto XVI ha usato la parola "Africa" quattro volte più di quanto abbia fatto con la parola "sesso". Tuttavia quest'ultima parola era riferita ad un unico documento che proibiva il sacerdozio ai gay ed è stato questo l'argomento che ha dominato sulla stampa. Il collegamento tra sesso e religione semplicemente vende bene e non è affatto giusto biasimare la chiesa per questo.

La Chiesa è ultra-gerarchica. Non proprio. Il Cattolicesimo ha una chiara catena di comando che lo rende abbastanza inusuale tra le religioni moderne (vi siete mai chiesti chi sia a capo del Giudaismo o dell’Islam?). Il Codice di Diritto Canonico assegna al Papa "un supremo, pieno, immediato e universale potere ordinario". Tale struttura gerarchica alimenta la percezione secondo cui il Cattolicesimo è gestito quasi esclusivamente dall’alto verso il basso. In pratica, invece, il Cattolicesimo funziona in modo informale e decentralizzato. La Curia Romana, ovvero la burocrazia amministrativa centrale della Chiesa, si serve di una forza lavoro di 2.700 dipendenti per gestire gli affari di più di 1,1 miliardi di cattolici. Se lo stesso rapporto di burocrati per cittadini fosse applicato al governo degli Stati Uniti circa 700 persone sarebbero sul libro-paga federale. In altre parole il Vaticano non ha gli strumenti per microgestire eccetto che nei più rari casi. Non si tratta di Wal-Mart dove la regolazione della temperatura di negozi lontani migliaia di chilometri è determinata da un computer nel quartier generale di Bentonville in Arkansas.

Il Cattolicesimo, inoltre, non è una gigantesca corporation. Gli assetti delle diocesi in giro per il mondo non appartengono al Papa ma ai vescovi e questo può dargli una considerevole autonomia in faccende amministrative. Nel 2001, per esempio, Roma ha ordinato all’Arcivescovo di Milwaukee di fermare la ristrutturazione della sua cattedrale perché non ne approvava il progetto. L’arcivescovo rispose che era lui quello che pagava gli appaltatori per cui Roma doveva farsi gli affari suoi.

Perfino all’interno del Vaticano gli uffici operano abbastanza indipendentemente uno dall’altro. Talvolta la mano sinistra di Roma davvero non sa, o non approva, cosa sta facendo la mano destra. Durante gli anni di Giovanni Paolo II, per esempio, lo stesso direttore di cerimonie del papa spesso ha proposto messe papali che ignoravano i cambiamenti suggeriti dall’ufficio di politica liturgica del Vaticano. E chiunque abbia prestato attenzione alle ondeggianti risposte da parte del Vaticano in merito alla crisi per gli abusi sessuali è verosimilmente giunto a un’impressione di incoerenza interna piuttosto che di stretto controllo dall’alto.

Probabilmente la migliore definizione che si può dare della Chiesa è riassunta dalla vecchia battuta secondo cui il Cattolicesimo è "una monarchia assoluta moderata da una disobbedienza selettiva". Dietro l’indipendenza locale e le cangianti risposte agli scandali c’è quasi sempre un impressionante grado di vivace dibattito. Fintantoche la Chiesa cresce in modo sempre più differenziato, questa tradizione di dialogo e discussione sarà sempre più critica per il suo futuro. Papi e pratiche cambieranno ma i fondamenti della fede molto probabilmente rimarranno forti e flessibili.

John L. Allen Jr. è senior correspondent per il National Catholic Reporter e senior analyst per la CNN.

Tratto da "Foreign Policy" (Novembre-Dicembre 2008)

Traduzione di Daniela Masciale e Fabrizia B. Maggi

Tuesday, November 11, 2008

Vittorio Messori un'apologetica dell' "et-et"

Ancora a proposito di Perché credo, propongo la recensione comparsa su Avvenire dello scorso 5 novembre 2008.

Vittorio Messori un'apologetica dell' "et-et", di Cesare Cavalleri
A lungo l’apologetica è stata intesa come una disputa con gli avversari della fede, una sorta di duello da concludersi con una stoccata vittoriosa. Basti ricordare che nel meraviglioso «Trionfo di san Tommaso» che Filippino Lippi affrescò tra il 1489 e il 1492 nella basilica di Santa Maria sopra Minerva, a Roma, su commissione del card. Oliviero Carafa, il santo, raffigurato in trono, non si limita ad additare l’errore atterrato davanti a lui (un vecchio corrucciato che ha in mano un cartiglio con la scritta «Sapientia vincit malitiam»), ma, per maggior sicurezza, gli mette sopra un piede. Tommaso, inoltre, è affiancato da quattro figure muliebri (la Grammatica, la Retorica, la Dialettica, la Filosofia) che non degnano di uno sguardo lo sconfitto.

La moderna apologetica non si propone più di umiliare l’avversario, di confutare l’errore prendendo di petto (o per il bavero) l’errante: come illustra il Catechismo della Chiesa cattolica, che raccoglie l’esperienza teologica e pastorale del Concilio Vaticano II, si tratta piuttosto di esporre «le buone ragioni della fede» argomentandole in positivo, passando, cioè, dalla «dialettica» alla «narrazione». Del resto, già Paolo VI, nella Evangelii nuntiandi (1975) aveva osservato che «l'uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri».

E dunque anche Vittorio Messori, principe degli apologisti contemporanei, ha scelto di narrare la propria testimonianza di fede, spiegando le perduranti conseguenze di quell’evento accaduto in un’afosa giornata torinese dell’agosto 1964, quando Gesù Cristo fece repentinamente irruzione nella sua vita, trasformando un ventitreenne cresciuto in rigorosa cultura laicista e passabilmente libertino, in un cristiano cattolico consapevole della responsabilità di partecipare agli altri la gioia della fede riscoperta. Ne è venuto un libro di ben 432 pagine, intitolato Perché credo – Una vita per rendere ragione della fede (Piemme, Casale Monferrato 2008, euro 20), in cui Messori ha accettato di rispondere alle domande di Andrea Tornielli, il quale, nell’Indice è indicato come Andrea Tornelli, e in effetti le sue domande sono utili «tornelli» che agevolano a Messori il passaggio di una solida e affascinante apologetica, attraverso il racconto in prima persona del suo itinerario esistenziale.

Sfilano dunque davanti agli occhi dei lettori i principali problemi del cristianesimo attuale, dalla riforma liturgica alla difesa e promozione della vita, dal necessario pluralismo dei cattolici in politica («minoritari ma non marginali»), ai rapporti tra scienza e fede, tra fede e filosofia. Su quest'ultimo punto Messori rilancia l'autocritica tracciata nella postfazione a un'ennesima ristampa di Ipotesi su Gesù: abbagliato dall'amatissimo Pascal che nel celeberrimo Mémorial afferma di aver incontrato «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Non dei filosofi e dei sapienti», anche Messori era stato tentato da un aut-aut tra fede e ragione, mentre la riflessione successiva l'aveva convinto che il cristianesimo è la religione dell'et-et: gli opposti sono compossibili, come si conviene alla religione del «perfetto Dio» e «perfetto uomo». E l'et-et è lo strumento metodologico preferito da Messori (forse fin troppo ricorrente nel libro), il quale giustamente condivide il motto di Jean Guitton, altro maestro riconosciuto: «Sono cattolico perché voglio tutto». Il capitolo finale è un appassionato atto di fede e di amore per la Chiesa, con Messori che arriva a commuoversi ripetendo a memoria la Pentecoste manzoniana, versi, a mio avviso, fra i più brutti della letteratura italiana.
Bellissimo, coinvolgentissimo libro, dunque, che conferma nella fede i credenti e tende una mano fraterna a chi non crede, incentrato com'è sull'incontro personale con Cristo, amato anche nel volto sindonico di cui Messori è strenuo e convincente apologeta.

Thursday, November 06, 2008

Il ritorno al cattolicesimo di un intellettuale di sinistra

La LINDAU di Torino propone Come sono ridiventato cristiano, di Jean-Claude Guillebaud (pagine 144, euro 14,00).

Jean-Claude Guillebaud, nato ad Algeri nel 1944, giornalista di «Le Monde», intellettuale laico di sinistra e già ateo convinto, oggi è direttore della casa editrice Seuil, ma Oltralpe è diventato un caso per la sua conversione.

Ora egli stesso ne racconta le tappe in queste pagine, una sorta di viaggio di ritorno al cristianesimo.

Insoddisfatto della narrazione solo «orizzontale» e cronachistica dei fatti cui era costretto dal suo mestiere di giornalista, Guillebaud sente la necessità di ritrovare una chiave di lettura più autentica per comprendere la dimensione «verticale» della storia e dell’uomo: «Per me era arrivato il tempo di deporre i bagagli. Il bisogno di leggere, di riflettere nel modo giusto, si sostituiva a quello di osservare e render conto».

La sua testimonianza è insieme personale e paradigmatica: attraverso l’analisi delle esperienze vissute in momenti e in luoghi cruciali del nostro tempo (dalla guerra del Vietnam al ’68, dalla crisi senza fine del Medio Oriente fino all’11 settembre) e il confronto con il pensiero di autori quali Girard, Morin, Ellul e Serres, Guillebaud riscopre la centralità e l’attualità del pensiero cristiano, il suo ruolo fondatore per la cultura dell’Occidente. «Messianismo giudaico, speranza cristiana, progresso dei Lumi: non riesco a impedirmi di scorgervi una filiazione che definisce l’intera storia occidentale. Significa che continuiamo a essere responsabili del divenire del mondo, che “un altro mondo è possibile”, come dicono oggi gli altermondialisti».

La sua «conversione» è dunque in primo luogo una scelta razionale, che nasce da una forte presa di coscienza di quelle che sono le radici della nostra civiltà e della terribile lezione che le ideologie del ’900 ci hanno consegnato.
In un’Europa «scristianizzata», stretta fra un fondamentalismo religioso che assume spesso i tratti del fanatismo islamico, un relativismo cinico e un edonismo disperato, il libro di Jean-Claude Guillebaud rappresenta un contributo prezioso alla riflessione sul rapporto fra fede e ragione, quel binomio che Benedetto XVI ha posto al centro del suo pensiero teologico.

«Non sono affatto sicuro di essere ridiventato un “buon cristiano”, ma credo profondamente che il messaggio evangelico conservi un valore fondatore per gli uomini del nostro tempo, compresi coloro che non credono in Dio. Ciò che mi attira verso di esso non è un sentimentalismo vago, è piuttosto la consapevolezza della sua fondamentale pertinenza. Confinarlo nel chiuso della propria intimità mi sembra assurdo.
La vera laicità non è la pavida rinuncia ai propri punti di vista, ma la loro libera espressione all’interno di un confronto forte e sereno.» (Dalla seconda di copertina).

Monday, November 03, 2008

La fede non è per cretini

Da Libero del 26 ottobre 2008.

Messori racconta: «La fede non è per cretini», intervista a Vittorio Messori di Caterina Maniaci

Raccontare di aver frequentato una scuola dura e seria, dunque di non essere uno sprovveduto o un ingenuo, di aver avuto una Rivelazione folgorante, di aver rinunciato a carriere brillanti, compresa quella di “libertino”, di aver speso la vita per rendere ragione della fede, di considerare la Chiesa (...) «la propria casa» e di aver trovato, nell'obbedienza e nel seguire l'ortodossia, la vera libertà.

Questo fa Vittorio Messori nel libro-intervista appena uscito, prenotato dai librai in un numero molto alto di copie e scritto insieme al vaticanista e saggista Andrea Tornielli. Il titolo del libro è esplicito: “Perché credo” (edizioni Piemme). Messori parla della sua fede in un mondo in cui tutto ciò è considerato politically incorrect, inopportuno, inaccettabile, fastidioso. Ma quest'uomo ha vissuto tutta la vita, e la sua carriera da scrittore, proprio nel segno della controtendenza, a partire dal folgorante inizio con “Ipotesi su Gesù”, a metà degli anni Settanta. Un successo editoriale senza precedenti - e non solo in Italia - tanto che ancora oggi questo libro vende venti-trentamila copie l'anno. Senza contare che Messori è l'unico giornalista della storia ad aver scritto un libro-intervista con un Papa, Giovanni Paolo II e un altro con colui che ne sarebbe diventato il successore, l'allora cardinale Ratzinger. E ora, in questo “Perché credo“, racconta come è avvenuto l'incontro che gli ha «di colpo, in modo imprevisto cambiato la testa». Nato in una famiglia emiliana anticlericale, cresciuto nella scuola razionalista torinese, allevato come pupillo dei grandi maestri del laicismo come Bobbio e Galante Garrone, nell'estate 1964, questo laureando di belle speranze, agnostico, indifferente alle questioni religiose, che passa il suo tempo tra studio, lavoro come telefonista notturno e la caccia a quante più donne possibile (ha un taccuino pieno zeppo di nomi e numeri di telefono) viene “sconvolto” da un fatto imprevedibile e imprevisto: incappa nel Cristo. E tutto, di colpo, cambia.

Perché proprio oggi ha deciso di parlare di sé in questo modo tanto aperto, della sua conversione, dopo tanti anni di - chiamiamola così - reticenza?

«Ho cercato, in tutta la mia vita e in tutti i miei libri, di dimostrare che la Speranza cristiana esiste, che è ragionevole crederlo e che il credente non è un credulo, né tanto meno un cretino. Oggi sono in tanti a sforzarsi di convincerci che non si può essere cristiani usando la ragione. Il cristiano, secondo loro, è uno che crede nei miti, nelle favole: insomma, è un cretino. Così dice, esplicitamente, uno di questi polemisti, naturalmente (come spesso capita) un ex-seminarista, stavolta piemontese, passato dalla teologia alla matematica. Perciò ho pensato fosse opportuno opporre a queste posizioni, per quanto conta, la mia esperienza».

In tutto questo c'entra anche la sua formazione scolastica e universitaria?

«Per molto tempo non ho voluto accettare questa sorta di “denudamento” intimo. In effetti, le scuole di Torino che mi hanno formato mi hanno insegnato a tenere per me quel privato che sarebbe la religione. Alla fine, se mi sono deciso, è per mostrare, con tutta umiltà e insieme convinzione, che si può essere credenti senza rinnegare la ragione. C'è una sorta di melma che sta montando, ormai da tempo, unanime nel volere convincerci che un uomo moderno, intelligente, non può accettare il Vangelo. Quindi ho accolto la proposta adesso, anche se con fatica e magari con un poco di sofferenza, avendo ormai alle spalle, spero, una certa credibilità professionale e quindi al sicuro da sospetti di creduloneria o tentazioni misticheggianti».

Tenendo presente che da anni, nei primi posti in classifica dei best-sellers, ci sono gli Augias, gli Scalfari, gli Odifreddi, i Dan Brown, insomma, tutti quelli che passano la vita a dimostrare che o si è uomo di cultura e di pensiero o sei credente, mai le due cose insieme…

«Appunto per questo mi sono deciso a “uscire allo scoperto” per mostrare, come ho fatto del resto in una ventina di libri precedenti, che non è così. Per tornare proprio a quell'“Ipotesi su Gesù” che ha dato il via a tutto, i pochi, anche clericali, che sapevano che lavoravo a questo libro, hanno cercato di dissuadermi. In una certa Chiesa post-conciliare era abbandonata l'apologetica. Che è, in realtà, il necessario tentativo di far partecipare la ragione alla fede. La mia, di apologetica, è sempre stata lontana da invettive, lamenti, polemiche basate sui sentimenti feriti o lagne del genere, ho cercato infatti di renderla solida, non abbandonando mai sia la ragione che i fatti concreti».

I suoi primi editori, i salesiani della Sei, erano certi che “Ipotesi su Gesù” sarebbe stato un flop editoriale E invece…

«Invece, quel libricino, stampato in meno di tremila copie, tenuto in un cassetto per più di un anno da quei religiosi perplessi, in pochissimo tempo ha superato il milione di copie in Italia e le trenta, quaranta traduzioni all'estero, dimostrando che c'era una domanda fortissima per la quale non esisteva un'offerta adeguata. E ancora oggi, a trentadue anni dall'uscita, continua ad essere ristampato».

Non c'è il rischio, ora, che lei venga trasformato in una sorta di “santino” , di icona del “buon cristiano”?

«Non credo proprio che sia possibile. In ogni caso, spero proprio di no ! Sono refrattario a tutto ciò che odora di “santa edificazione”, di buoni sentimenti e così via. Persuaso, come sono, che la teoria diventa più convincente se incarnata in una esistenza, mi sono deciso a raccontare la mia, ma tutta calata nella concretezza di uomo che si è dovuto arrendere al Vangelo, che ha cercato di sperimentarlo, e adesso ne trae il bilancio.

Mettendo però bene in chiaro il fatto che io non solo non colloco me stesso tra le ragioni per credere, ma dico: credete, se volete alla mia testimonianza, e non guardate troppo alla scarsa coerenza del testimone. Mi è stato dato di capire, di colpo, dov'è la Verità, cerco di presentarla, ma io stesso per primo molto spesso non ce la faccio a viverla. Indico un ideale di cui sono convinto sino in fondo, ma confesso che io pure ne sono spesso lontano».

Ci spiega, se mai è possibile, quel momento che ha coinciso con la sua conversione?

«Un'esperienza mistica è per definizione ineffabile e quindi non descrivibile. In ogni caso: così come, purtroppo, non sono mai stato, anche dopo quell'evento, un cristiano esemplare, così non sono mai stato un temperamento mistico. Anzi. Sono un emiliano terragno. Mi piacciono le donne, specialmente quelle prosperose, mi piace il cibo succulento, mi piace la libertà di dire e fare, mi piacerebbe insomma la vita con regole che io stesso mi pongo. Se seguissi la mia natura istintiva, sarei non un buon cristiano ma un buon pagano. In ogni caso sono agli antipodi della tipologia del mistico e dell'asceta».

E in quell'estate del '64, cosa è successo?

«Per un paio di mesi, in quella lontana e torrida estate del '64, sono stato “immerso” in una esperienza mistica che non avrei mai immaginato, che non avevo conosciuto prima né ho mai più conosciuto dopo. Ma quelle poche settimane sono bastate per sempre. È stato come cadere in un “buco” di luce: ne sono riemerso con la testa completamente cambiata. Con la chiarezza di aver visto la Verità, con tutta la sua forza ed evidenza. Tanto che oggi ( e lo dico con umiltà, anzi un po' spaventato io stesso) se mi chiedessero di abiurare la fede puntandomi una pistola alla tempia, non potrei farlo. Non per eroismo, non per desiderio di martirio, ma semplicemente perché sono inchiodato dall'evidenza che, come racconto in questo mio ultimo libro “Perché credo”, mi è stata mostrata senza che lo aspettassi o che lo meritassi».