Monday, April 20, 2009

Lo stile di Benedetto XVI

Come al solito, mi faccio cassa di risonanza di articoli o interventi, a mio avviso, interessanti e istruttivi in ambito cattolico. Come dire... massimo risultato col minimo sforzo!

Lo stile di Benedetto XVI, di Vittorio Messori

Dopo avere varcato l'82˚genetliaco, Joseph Ratzinger inizia il quinto anno di pontificato. Smentendo ancora una volta coloro che non lo conoscevano, il peso della tiara non lo ha sfiancato e non gli sono mancate le energie per viaggi impegnativi come quello africano. Merito anche della prospettiva che trae dalla fede. Non dimentico l'espressione sorpresa quando gli chiesi se erano serene le sue notti da Cardinal Prefetto della Dottrina della fede. Allora infuriava la contestazione clericale e sul suo tavolo giungeva­no dossier inquietanti da ogni parte del mondo. È con sorpresa, dunque, che mi rispose: «Fatto l'esame di coscienza e recitate le mie pre­ghiere, perché non dovrei dormire tranquillo? Se mi agitassi, non prenderei sul serio il Vangelo che ci ricorda, senza complimenti, che ciascuno di noi non è che un 'ser­vo inutile'. Dobbiamo fare sino in fondo il nostro dovere, ma consapevoli che la Chiesa non è nostra, la Chiesa è di quel Cristo che vuole usarci come strumenti ma che ne resta pur sempre il signore e la guida. A noi sarà chiesto conto dell'impegno, non dei risultati».

È con questo stesso spirito che ha accettato il peso del pontificato: per obbedienza, per amore della Chiesa, così come, ancor giovane professore, aveva sofferto ma non si era lagnato quando Paolo VI lo aveva strappato alla sua amata università per metterlo alla guida della grande diocesi di Monaco di Ba­viera. Passando, nell'aprile del 2005, alla nuova scrivania - poche centinaia di metri, in linea d'aria, da quella occupata per 24 anni ­non ha cambiato il suo stile, contrassegnato dalla costanza e dalla pazienza, su uno sfondo molto tedesco di serietà, di precisione, di senso del dovere. Il programma lo aveva già chiaramente manifestato sin dal 1985 con il suo Rapporto sulla fede: una «riforma della riforma », con il ritorno al Vaticano II «vero», non a quello immaginario dei sedicenti, vociferanti progressisti. Fedeltà piena alla lettera dei documenti del Concilio, non a un pre­sunto, imprecisato «spirito del Concilio»: dunque, continuità, non rottura, nella storia della Chiesa, per la quale non c'è un prima e un dopo.

Un obiettivo chiaro, perseguito innanzitutto come principale consigliere teologico di Giovanni Paolo II che però, talvolta, non fu del tutto in sintonia con lui. La leale amicizia tra i due, divenuta presto affetto, non impedì la perplessità del Cardinale per alcune iniziative come le parate sincretiste di Assisi , le richieste di scuse per le colpe dei morti, la moltiplicazione dei viaggi a spese del governo quotidiano della Chiesa, l'eccesso di beatificazioni e canonizzazioni, la spettacolarizzazione di momenti religiosi, magari con rockstar sul palco papale e la scelta di paramenti liturgici secondo le indicazioni dei registi televisivi. Pianto, con dolore sincero, l'amico venerato, presone il posto, pur senza averlo auspicato, divenuto dunque Benedetto XVI, Joseph Ratzinger ha continuato il suo lavoro paziente. Un aggettivo che non usiamo a caso. In effetti, la pazienza lo contrassegna da sempre: per rispetto delle persone; per realismo da cristiano che sa quale lunga tenacia sia necessaria per modificare le cose; per consapevolezza che la Chiesa ha per sé tutta la storia e i suoi ritmi non sono quelli del «mondo».

Così, sono stati spiazzati coloro che temevano o, al contrario, auspicavano una sorta di blitz in quella liturgia la cui «riforma della riforma» era, stando al Ratzinger cardinale, tra le cose più necessarie e magari urgenti. La sua «rivoluzione tranquilla» è cominciata non con qualche decreto per la Chiesa universale ma con la sostituzione del Maestro delle Cerimonie pontificie, scegliendo un liturgista a lui congeniale: così, prima che con gli ordini, il ritorno a riti nella linea della Tradizione sarebbe cominciata con l'esempio che scende dall'alto. Se celebra così il Papa, non dovranno, prima o poi, adeguarsi anche il vescovo e il parroco? Pazienza, e prudenza, anche per la lingua liturgica, non sconvolgendo i messali ma facendo convivere il latino accanto ai volgari, testimoniando anche così che il Vaticano II non è stato in rottura con la Tradizione e che san Pio V non fu meno cattolico di Pao­lo VI.

Altrettanta pazienza nei confronti della Nomenklatura ecclesiale: es­sa pure non è stata sconvolta, ma all'osservatore attento non sfuggono sostituzioni e nomine che rivelano una strategia prudente e al contempo incisiva. Poco, comun­que, si capirebbe di questo pontificato se non si mettesse in conto che, per Joseph Ratzinger, problema dei problemi non è la «macchina » ecclesiale ma il carburante; non è il Palazzo, sono le fondamenta. È, cioè, quella fede che sa minacciata alla radice, quella fede che molti credono incapace di reggere all'assalto della ragione, quella fede assediata da ogni lato dal dubbio. La crisi, più che della istituzione, è della verità del Vangelo che la sorregge e le dà senso. Come mi disse una volta: «Siamo ormai a un punto in cui io stesso mi sorprendo di chi continua a credere, non di chi non crede». Constatazione drammatica, che fa da sfondo a un pontificato il cui centro, non a caso, è la ricerca (paziente...) di un nuovo rapporto tra la ragione moderna e la fede antica.

© Corriere della Sera

Saturday, April 18, 2009

Hai fede o credi?

In un racconto ebraico, uno chassid ascolta un teologo che parla degli attributi di Dio.
Alla fine della lezione, lo chassid dice al teologo: “Se Dio fosse come tu lo hai descritto, non ci crederei!”.
Un conto è credere, un altro avere fede, dice Abraham Joshua Heschel (*), filosofo ebreo, mistico e profeta dei nostri tempi. Credere significa credere in una dottrina che riassume in definizioni ciò che è illimitato; avere fede è l’intimità del rapporto con Dio, che non trova parole per essere espresso e comunicato. L’effetto del credere può essere morire per il proprio credo, ma anche uccidere chi si rifiuta di condividerlo. L’effetto della fede è una infinita tenerezza e compassione per tutte le creature nella coscienza che un’unica povertà, un unico dolore, un’unica nostalgia accomuna tutta l’umanità nel suo esilio su questa terra.
L’effetto del credere è essere gelosamente attaccato a una dottrina, è fare del dogma il proprio idolo; l’effetto della fede è tagliare i ponti con ogni idolo e attaccamento. Avere fede è essere come Abramo. Un midrash ebraico, cioè un racconto che va oltre il racconto della Bibbia immaginando i retroscena che la Bibbia non dice, racconta cos’è la fede di Abramo. Abramo nasce in un ambiente idolatra, in un Paese idolatra, da un padre accanito idolatra: prega davanti a idoli di pietra che lui stesso scolpisce. Ma l’intuizione che nasce nel cuore di Abramo è un’altra e la comunica così a suo padre Tare: “Padre, più dei tuoi dèi d’oro e d’argento, di legno e di pietra, va adorato il fuoco che è in grado di distruggerli. Ma nemmeno il fuoco io chiamo dio, perché è succube dell’acqua che lo estingue. Ma non chiamo dio nemmeno l’acqua, assorbita dalla terra. E nemmeno la terra chiamo dio, perché il sole la asciuga illuminando il mondo intero. Ma nemmeno il sole chiamo dio, perché le tenebre lo oscurano. E nemmeno la luna e le stelle, perché si spengono. Ascolta, padre mio, quello che ho da dirti: il Dio che ha creato ogni cosa è il vero Dio. Egli ha dipinto i cieli e dorato il sole, ha acceso la luna e le stelle, ha fatto emergere la terra dalle acque e ha messo al mondo anche te. Quanto a me, Egli ha fatto luce nel caos che annebbiava la mia mente”.
Dopodiché, Abramo se ne va: se fosse rimasto, l’ambiente e la famiglia l’avrebbero
rovinato, dice il midrash, e spento quella luce che mette ordine nel caos. La fede inizia con una partenza e prosegue con delle scelte opposte a qualunque idolatria. E non è vero che prima di partire bisogna risolvere i dubbi di fede: Abramo e tutti i profeti e i personaggi della Bibbia si sono trovati ad affrontare perplessità implacabili nel corso di tutta la loro esistenza. Nessuno ha certezze al cento per cento; ma chi come Abramo ha percepito una luce, proprio perché spesso si spegne e si ripiomba in un buio angoscioso, per rincorrerla è disposto a mettere tutto in gioco.
Eppure il dogma che sta alla base del credere è necessario, dice Heschel. Proprio perché la luce si spegne, proprio perché l’intuizione di fede si sottrae ad ogni formulazione ed espressione, il cercatore di Dio ha il problema di riuscire ad estendere la luce percepita ad ogni momento della vita. La dottrina e il dogma non sono altro che il tentativo di tradurre in concetti gli istanti di luce, di trovare parole compatibili con la realtà divina di cui egli ha fatto esperienza.
La fede senza il credo manca di sostegno; ma il credo senza la fede è come un corpo senza cuore. Perciò è dalla fede che bisogna cominciare.
È inutile, dice Heschel, insegnare ai giovani i valori morali: tra tutte le discipline, l’etica è la più insicura. I valori senza la fede sono come la storia del fabbro che impara tutte le tecniche del mestiere ma non sa come far scoccare la scintilla del fuoco.
Solo questo invece conta: far scoccare la scintilla. Conta stimolare il senso del mistero, che non è quello che ancora non si sa, ma quello che non sapremo mai. Conta stimolare lo stupore, la meraviglia, la gratitudine attraverso la contemplazione della bellezza della natura, la poesia, l’arte, la musica: la quale ha trasformato in un santo un peccatore come il re Davide.
Cosa sono per l’uomo i valori fini a se stessi lo dimostra, dice Heschel, il modo di
registrare gli eventi importanti della storia. Nessuno annota mai quelli veramente grandi. Sappiamo la data della battaglia di Jena, ma non conosciamo il giorno in cui un innamorato di Dio ha scritto: Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. Che strano: eppure è una data assai più importante della battaglia di Jena.

(*) A. J. Heschel, Il canto della libertà. La vita interiore e la liberazione dell’uomo, Qiqajon 1996

[di Flaminia Morandi, su Nuovo Progetto, maggio 2007, edizione elettronica pubblicata da http://www.trappisti.org]

Sunday, April 12, 2009

BUONA PASQUA



Kristòs anèsti, alithòs anèsti! Cristo è risorto, è veramente risorto!

Tuesday, April 07, 2009

Chiesa e martirio

«So a che cosa sta pensando», disse il cardinale. «Pensa che dovremmo marciare diritti al Colosseo e dire alle guardie di lasciare entrare i leoni contro di noi».
Elia non disse niente.
«Un martirio eroico è veloce, semplice, glorioso, no? Il sangue lava via tutte le ambiguità. La morte spezza tensioni intollerabili. Lei vorrebbe che intrecciassimo una corda e scacciassimo i cambiavalute dal tempio, e poi andassimo in croce. Giusto?».
«È così sbagliato? Non è la strada che ci ha indicato il nostro Salvatore?».
«Lo è. E io le dico che noi andremo in croce. Ma non sta a noi accelerare quel momento. Dobbiamo lavorare finché c’è luce. Dobbiamo rinvigorire quello che rimane. Si tratta di un martirio lungo e solitario. È il più difficile di tutti».
I due uomini si guardarono senza parlare. Poi insieme si mossero, andando in direzioni diverse.

[Tratto da Il nemico, di Michael D. O’Brien, Edizioni San Paolo, 2006, pagina 327]