Monday, February 21, 2011

L’Italia dei comici e dei cantanti e l’Italia degli italiani

Su "Unità d'Italia-Intervento di Benigni a Sanremo" riporto l'opinione dello storico Massimo Viglione, opinione molto diversa da quella espressa da Antonio Socci.

L’Italia dei comici e dei cantanti e l’Italia degli italiani

Il nuovo vate nazionale, comico che deve fa ridere per forza (chi non ride sulle sue battute è, come si dice oggi, “out”), nuovo intellettuale organico adatto ai nuovi tempi del nulla imperante, ci ha nuovamente esaltato, nel nuovo tempio dello Stato italiano (l’altare della patria in realtà non lo è mai stato), la “Nuova Italia”, quella nata 150 anni or sono.

E subito, appena il giorno dopo, anche il nostro governo ha ceduto: ha finalmente dichiarato che il 17 marzo sarà festa nazionale (a scapito però del tradizionale 4 novembre, per non scontentare troppo Confindustria). Come chiunque può comprendere, alcune riflessioni, per quanto velocissime, appaiono necessarie. Il nostro popolo ha avuto diversi vati nel corso dei secoli, anzi, dei millenni. Virgilio e Orazio, quando dominavamo il mondo, sebbene la Stato italiano non esistesse, bensì l’Italia era il cuore del più importante impero sovranazionale di tutti i tempi, fucina del diritto e della civiltà occidentale; il Vate per antonomasia, il divin Poeta, il più grande genio umano di tutti tempi, che ci ha lasciato la più eccelsa e irraggiungibile opera di tutti i tempi, che ha segnato per sempre la formazione della nostra lingua, che ci ha ricordato il senso spirituale, morale e anche politico di questa fugace vita in attesa della futura eternità: tutto questo quando l’Italia era divisa in decine e decine di Stati e staterelli, poleis e feudi, ma pienamente unita in quello spirito religioso e civile che Dante ha colto come nessun altro uomo ha mai saputo fare con la propria epoca; Torquato Tasso, molto più che l’Ariosto, seppe incarnare il senso di una nuova epoca che poneva Dio e la Chiesa Cattolica e la civiltà ad essa connessa nel centro del cuore degli italiani, producendo alcuni fra i più grandi artisti di tutti i tempi; eppure l’Italia era divisa in Stati in parte soggetti a monarchie straniere; quindi Foscolo, illuso e piagnone servitore di un italiano sì geniale ma ipocrita e rinnegato che con i suoi eserciti francesi aveva promesso libertà e che portò morte, latrocinio, oppressione, e offesa all’identità italiana; e dopo di lui Leopardi, geniale cantore di una visione della vita estranea agli italiani, e Manzoni, operatore di una conciliazione ardita fra il sentimento romantico rivoluzionario e il secolare ordine cristiano cardine dell’identità italiana: eppure l’Italia era ancora divisa in 7 Stati, dei quali però solo uno era soggetto ormai allo straniero; infine i vati dell’Italia postunitaria, Carducci esaltatore di Satana, Pascoli speranzoso nel lavacro socialista e D’Annunzio, fautore del “nuovo italiano”, dimentico del bene e del male.

Poi i vati sono finiti, con la morte della cultura italiana, o meglio, della Cultura, schiacciata dalla guerra civile, dall’odio partigiano, dall’affarismo della rinascita, dal compromesso politico e culturale con il sole dell’avvenire, che ci ha portato le foibe e il Sessantotto, il terrorismo e l’odio sociale, lo statalismo e il radicalismo chic dispregiatore senza limiti di tutto ciò che per millenni è stato costitutivo della grandezza vera e irraggiungibile della civiltà italiana. Ma l’Italia ora è unita… Adesso, finalmente, abbiamo di nuovo un vate, dopo quasi un secolo. Roberto Benigni. E un nuovo tempio nazionale: il teatro Ariston di Sanremo, con fiori, musica e colori, e con tanto di vallette, cantanti e comici. E un pubblico sempre plaudente. E un conduttore cantante che voleva festeggiare l’unità cantando “Bella ciao”…

Da Virgilio a Benigni, passando per Dante. Il meraviglioso itinerario della storia italiana. Ma l’Italia è ora unificata da 150 anni. E gli italiani sono uniti? Quando ieri sera Benigni ha più volte (in maniera spiritosa, s’intende) ironizzato su Berlusconi e le minorenni, quanti milioni di italiani a casa si sono nei loro cuori sentiti uniti? Quanti milioni di italiani hanno magari pensato a Vittorio Emanuele II, esaltato dal post-comunista Benigni come il “Re Galantuomo”, che una sera sì e l’altra pure si faceva portare dai suoi servitori nella sua stanza da letto femmine prelevate dai bordelli di Torino? (per non dire dei suoi amori con tredicenni e giù di lì… come lo chiameremmo oggi un uomo adulto che va con una tredicenne? “Galantuomo” o in altro modo?).

Quando Benigni ha detto che i Borbone opprimevano in maniera mostruosa i meridionali mentre grazie a Dio oggi il Meridione è “libero”, quanti meridionali si sono sentiti uniti? Quando Benigni ha detto che Garibaldi e Cavour si sono sacrificati morendo poveri per l’Italia, quanti italiani hanno visto in lui un vate? Oppure quanti hanno visto solo un patetico barzellettaio? Se il conduttore della trasmissione-culto della “Nuova Italia” avesse veramente cantato “Bella ciao”, quanti italiani si sarebbero sentiti uniti? E, a questo proposito, mi pongo una domanda.

Anzi, due: 1) come mai in questi 150 anni abbiamo fatto festa nazionale il 4 novembre, il 28 ottobre (sotto il fascismo), il 25 aprile, il 2 giugno, e mai il 17 marzo, forse l’unica festa sensata in sé, visto che è la data di costituzione dell’unità nazionale? Come mai abbiamo sempre festeggiato di tutto e di più ma mai l’unificazione?

2) Per quale ragione, per immettere il 17 marzo (una tantum, naturalmente) in questo anno abbiamo tolto la festa del 4 novembre? Tale festa divide pochissimo gli italiani, sia perché la maggior parte di loro, specie i più giovani, neanche sa di cosa si tratta, sia perché rimane l’unica vittoria militare di grande rilievo dell’Italia unificata (con aiuto straniero, s’intende); pertanto, sono pochissimi coloro che nel loro cuore la sentono come una festa che divide e ferisce (fra questi pochissimi, chi scrive).

Sarebbe stato molto più sensato far saltare il 25 aprile, festa da tutti conosciuta, e, apertamente o nel segreto dei cuori, dalla grande maggioranza degli italiani subita controvoglia se non disprezzata come fomentatrice di odio e violenza: festa che ci ricorda – direttamente o indirettamente – la dittatura, la disfatta militare, la “morte della patria”, la guerra civile, l’odio fra fratelli e amici, le fucilazioni, le retate, le violenze sessuali, le vendette di massa, i campi di sterminio e le foibe, invasori spietati sul suolo patrio, la menzogna di una “guerra di liberazione” che fu solo una guerra al servizio di stranieri invasori, dall’una e dall’altra parte della barricata. Festa della divisione civile per eccellenza, festa che più di ogni altra ricorda quanto siamo divisi, quanto l’Italia unificata sia non mai riuscita a “fare gli italiani”.

Chi scrive queste riflessioni non lo fa in spregio al valore dell’unità nazionale. Lo fa come denuncia della menzogna risorgimentale. Un conto è l’unità nazionale, un conto è l’unità degli italiani.

Proprio l’aver unificato l’Italia nel modo in cui è stata unificata, senza partecipazione popolare, contro la Chiesa e la religione degli italiani, conquistando con bestiale brutalità la metà meridionale della Penisola per poi imbarcare milioni di persone per il nuovo mondo, e altro ancora, è la causa fondamentale, insieme alle menzogne storiche perpetuate in questi 150 anni, fino a ieri sera, del fatto che il popolo italiano rimane il più diviso al suo interno fra tutti i popoli dell’Occidente.

Ecco cosa festeggiamo in questi giorni: il fallimento dell’unità degli italiani, come ogni dì ognuno di noi può facilmente verificare. Andatelo a dire al nuovo vate della nuova Italia: ma penso che sia inutile, ora sarà troppo distratto contando la vergognosa montagna di soldi che gli hanno dato (proprio coloro che ogni giorno accusano il governo di non pensare alle difficoltà quotidiane degli italiani) per dirci che il Meridione gemeva sotto i Borbone mentre oggi è libero e prospero e che Garibaldi e Cavour sono morti poveri. Poveri come lui.

Articolo pubblicato sul sito Libertà e Persona

Ma ci voleva un comico per farci sentire un popolo?

Roberto Benigni merita un grande “grazie!”. Certo, alcune baggianate le ha dette nella sua performance al festival di Sanremo.

Per esempio, se ho ben capito (perché affastellava argomenti con un eloquio sovraeccitato) ha detto che fu Mazzini, nel 1830, a inventare il Tricolore. E’ una sciocchezza.

Chissà come gli è venuta in mente: il Tricolore fu concepito da Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis, a Bologna nel 1794 (l’ho raccontato di recente su queste colonne). E fu poi ripreso – come tutti sanno – dalla Repubblica Cispadana nel 1797. Mazzini non era neanche nato.

Suggestivo è il riferimento benignesco alle origini del Tricolore dalla Divina Commedia (Purg. XXX, 30-33), ma purtroppo l’attore toscano ignora che i colori bianco, rosso e verde del vestito di Beatrice indicano le tre virtù teologali, Fede, Speranza e Carità e così il riferimento dantesco rimane monco.

Qualcuno poi dovrà spiegare a Bossi e alla Lega che il Tricolore nasce dallo stendardo della Lega lombarda (la croce rossa in campo bianco che proveniva dalle crociate) e che l’unità d’Italia è in gran parte un’ “impresa padana”.

Ma chissà se ascolteranno.

Per tornare a Benigni, ci sono poi le gaffe dovute all’ingarbugliamento verbale del comico, come quando ha detto che la cultura italiana esisteva prima della nazione: una cosa senza senso, chissà perché rilanciata dai tg come una geniale idea.

In realtà intendeva dire che la nazione e la cultura italiane esistevano prima dello Stato unitario (che è sorto appunto nel 1861).

Era uno spunto bello – quello della cultura italiana che precede lo Stato – che sarebbe stato da approfondire. Peccato che l’abbia lasciato cadere.

E peccato che l’orazione civile di Benigni abbia celebrato un Risorgimento da scuola elementare di cento anni fa.

E’ stato un alluvione di retorica da piccola vedetta lombarda. Ha narrato una favoletta piena di eroi giovani e forti (che sono morti) assai lontana dalla realtà dei fatti.

Non c’è stato nemmeno il sentore delle zone d’ombra, degli errori e pure degli orrori della “conquista piemontese”.

Detto questo credo che Benigni sia stato grande e abbia fatto comunque una grande cosa.

Prima di tutto per la sua emozione e la sua commozione che ci hanno toccato il cuore e che ci hanno fatto sentire come nostro perfino un inno nazionale improbabile e per certi aspetti imbarazzante.

Il caso Benigni è emblematico. Nessuno ha riflettuto su quanto sia singolare che a un comico sia di fatto affidata l’unica vera celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia (in effetti la performance di Benigni a Sanremo era più attesa dei discorsi ufficiali del presidente Napolitano).

In realtà c’è una ragione profonda. E’ data dal fatto che, dopo il fascismo, che ridusse l’amor di patria a una macchietta comica prima e tragica poi (per il nazionalismo, il colonialismo e la catastrofe bellica), le sole due modalità che gli italiani, nel cinquantennio repubblicano, si sono concessi per essere patriottici sono state il calcio (lo stadio, dove giocava la Nazionale, è diventato l’unico posto dove sventolavamo il Tricolore) e la comicità (vedi “La grande guerra” interpretata da Gassman e Sordi, per fare un esempio).

Il registro comico ci permette infatti di dirci che siamo fieri di essere italiani (specie col mito “italiani brava gente”), ma con un sorriso rassicurante, col sottinteso cioè che non ci prendiamo troppo sul serio e nessuno si sogna più di emulare la Roma imperiale: infatti gli italiani possono essere solo “eroi involontari”, proprio come Gassman e Sordi in quel capolavoro di Monicelli.

Anche il palcoscenico della celebrazione di Benigni era emblematico: il festival di Sanremo e la Tv.

Emblematico perché (primo) Festival e Tv sono il tempio del sentimento nazional-popolare, (secondo) perché rientrano perfettamente nello stereotipo più diffuso e banale – gli italiani spaghetti e mandolino – e (terzo) perché confermano perfino lo stereotipo colto per il quale – in fin dei conti – la nostra arte e la nostra cultura ci fanno da duemila anni il cuore del mondo (del resto il Festival si vanta di essere “la musica italiana”).

C’è un’altra piccola rivoluzione memorabile compiuta da Benigni: per un cinquantennio la parola “patria” è stata un tabù per la Sinistra comunista e per la cultura ufficiale. Bastava pronunciarla per essere accusati di fascismo.

Non solo. I comunisti avevano certamente dato un grandissimo contributo alla liberazione del Paese dal nazifascismo, nella guerra partigiana, però il Pci era asservito a Stalin, a una potenza straniera minacciosa e nemica dell’Italia.

Per capire cosa significa ciò bisogna ricordare che nel momento più drammatico dello scontro fra mondo libero e Urss, attorno al 1948-1949, quando l’Armata Rossa si stava divorando mezza Europa, asservendo decine di Stati dell’Est europeo e arrivando fino a Trieste con mire fameliche e aggressive, uno come Enrico Berlinguer – il migliore di quel campo (a quel tempo leader della Fgci) – affermava che in caso di guerra i giovani non avrebbero combattuto contro l’Armata Rossa.

Fece indignare lo stesso De Gasperi che gli rispose di persona, con un suo duro discorso (il legame del Pci con l’Urss è durato a lungo: perfino i finanziamenti sovietici sono arrivati fino alla fine degli anni Settanta).

Ancora negli anni Ottanta – nella decisiva vicenda degli euromissili (che poi porterà tali cambiamenti a Mosca da provocare il crollo del comunismo) – il Pci, anziché schierarsi con la Nato per far fronte alla minaccia dei missili sovietici puntati sull’Europa, scelse un “pacifismo” che di fatto significava non difendere gli interessi nazionali e avvantaggiare l’Urss (chissà se il presidente Napolitano ricorda…).

Ciò detto che oggi si possa parlare di “patria” senza più i tabù ideologici del passato, come ha fatto Benigni, è una gran bella cosa. Che tutti insieme ci si possa riconoscere nel nostro passato e nel nostro Paese, come una sola famiglia è meraviglioso.

Tanto più in questo anniversario dei 150 anni dell’unità nazionale, nel quale il Paese sembra dilaniato dagli odi e il disprezzo reciproco quasi rende impossibile riconoscersi come un solo popolo.

Benigni si è trovato a svolgere un ruolo che non dovrebbe essere affidato a un attore, specialmente a un attore comico, ma ha trovato nella propria religiosità il modo per cantare un inno che ci ha unito e che nessuno avrebbe potuto restituire con eguale semplicità. Per qualche minuto sugli odi e sul disprezzo reciproco ha prevalso in tutti la sensazione di essere un popolo. E ha prevalso l’amore per quella cosa bellissima che si chiama Italia.

Antonio Socci su Libero, 19 febbraio 2011

Friday, February 04, 2011

I peccati

"Tutti i peccati sono tentativi di colmare dei vuoti". (Simone Veil)

Sono i vuoti nell'anima provocati, dopo il peccato originale, dall'assenza della grazia. Se non si accoglie l'amore di Dio e non ci si lascia trasformare da esso, tali vuoti continuiamo a colmarli, per l'appunto, coi peccati.

Wednesday, February 02, 2011

La replica di Vittorio Messori

Vittorio Messori risponde alle perplessità di molti cattolici a proposito delle sue recenti annotazioni storiche su cristianesimo e Islam. Si veda in proposito l'articolo di Antonio Socci "Ma Messori sta col Papa o col Grande Imam?"


La verità che rende liberi
di Vittorio Messori

Trovo da qualche parte, in rete, dei cattolici che si dicono inquieti per alcuni contenuti di questa rubrichetta che nasce, senza pretese, da “due chiacchiere“ mattiniere con un collega che mi telefona. Sono cattolici (e dunque, per me, fratelli nella fede, con i quali mi sento solidale) che si chiedono e mi chiedono se sia opportuno non tacere certi episodi della vicenda ecclesiale. Così, ad esempio, parlando dell’Islam sembra sgradevole ricordare ciò che la storia ci attesta: nell’Africa del Nord i pochi incursori venuta dall’Arabia poterono diventare presto, e con poco sforzo, padroni perché accolti come liberatori dai cristiani locali, in feroce rissa tra loro ma uniti nell’odio verso Bisanzio. Oppure, non tacere che i musulmani sbarcarono in Spagna e, qui pure, in poco tempo si installarono da dominatori, perché chiamati ed aiutati da una parte della nobiltà visigota cristiana in lotta con l’altra parte. O ricordare che la Francia “cristianissima“ fu spesso e volentieri, persino a Lepanto, dalla parte dei Turchi. O anche, parlando di radici cristiane dell’Europa, riconoscere che in certe zone del Continente il vangelo fu imposto con la spada, che monaci-soldati come i Cavalieri Teutonici portavano il terrore, che popoli come i Sassoni furono massacrati da “san” Carlo Magno anche perché non volevano accettare il Vangelo, che ancora in pieno Medio Evo i Paesi baltici combattevano in difesa dei loro dèi pagani.

Ho l’impressione che quei cattolici che si dicono sconcertati siano lettori “nuovi“, che non abbiano cioè seguito quanto ho scritto e scrivo, ormai da molti anni, in un’altra rubrica,“Vivaio”, ospitata prima dal quotidiano Avvenire e ora dal mensile Il Timone. In quelle molte pagine (confluite poi in quattro libri, ristampati di recente dalle edizioni Sugarco) mi sono sempre ispirato a una convinzione: quella, cioè, che il Dio di Gesù Cristo non ha bisogno delle nostre bugie o delle nostre furbizie ed omissioni. E che la ricerca della Verità, ma quella tutta intera, è dovere sacro per chi crede nel Vangelo. Sostengo da sempre la necessità di riscoprire l’apologetica cattolica, intesa nel senso di contrasto delle molte, troppe “leggende nere“ create attorno alla Chiesa dai suoi nemici. Ma l’apologetica può essere un boomerang che ci si ritorce contro, se cercassimo di nascondere le carte che temiamo di mettere allo scoperto. Non esitai a scrivere, con umiltà ma chiarezza, per giunta sulla prima pagina del più diffuso quotidiano italiano, la mia perplessità per le continue richieste di perdono, a tutti, di Giovanni Paolo II. Ma questa perplessità nasceva dal fatto che quel Papa, pur grandissimo, talvolta non sembrava bene informato su certe complesse vicende storiche. Come ovvio, del resto: quale uomo può essere onnisciente? Ma mi era, e mi è, chiaro che si può, si deve discutere sugli eventi della storia ma che un principio è indiscutibile : la Chiesa è santa eppure è composta da peccatori e il Vangelo è la rivelazione di un Dio che ha voluto affidarsi ai limiti e agli errori della umanità. Come amava dire, forse con una battuta un po’ sbrigativa, Jacques Maritain: una cosa è la sacra Persona della Chiesa, altra cosa è il suo spesso mediocre personale. Dunque, perché scandalizzarci se si riconosce ,con umiltà e verità, che tutti (a cominciare dal futuro Capo stesso della Chiesa, che per tre volte tradì in pubblico il Maestro), tutti siamo bisognosi di esami di coscienza?

© La Bussola Quotidiana